Tra gli spettacoli in programma al Meeting di Rimini 2017 merita una menzione particolare senz’altro “Padre e Figlio”, nel quale Massimo Popolizio, attore noto anche al pubblico televisivo, torna a collaborare con il regista da Otello Cenci. Il testo dello spettacolo, che andrà in scena mercoledì 23 agosto alle 21:45, guiderà il pubblico attraverso alcune relazioni fondamentali delle tre religioni monoteiste: Caino e Abele, Abramo e Isacco, Giacobbe ed Esaù. A scriverlo è stato il drammaturgo e poeta Fabrizio Sinisi, che abbiamo intervistato.
In che modo lo spettacolo è legato al titolo del Meeting “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”?
Ho già avuto modo, alcuni anni fa, di lavorare con il Meeting di Rimini: i progetti nascono da incontri personali da cui scaturisce il desiderio mettere a fuoco un tema o una domanda; allora, tra me, Sandro Lombardi e Costantino Esposito; stavolta con Otello Cenci, Wael Farouq e Massimo Popolizio. Ci piaceva l’idea di lavorare sul titolo del Meeting in maniera frontale. E quale miglior modo che verificare quel tema all’interno dell’Antico Testamento, dove la questione padri-figli è il perno intorno al quale ruota non solo la storia dell’uomo ma anche, in un certo senso, quella di Dio?
Come mai la scelta di parlare di alcune importanti figure della Bibbia?
Nella Bibbia, il rapporto padri-figli si realizza principalmente su due grandi livelli: uno è quello delle vicende che riguardano, appunto, i rapporti fra due generazioni, il passaggio di un testimone, la prosecuzione di una storia. Ma l’altro rapporto, più grandioso e generale, è quello fra Dio e il suo popolo, che è appunto un rapporto tra padre e figlio, con tutte le controversie, i riavvicinamenti, i tradimenti e gli infiniti perdoni di un rapporto genitore-figlio. Lo scopo di questo rapporto sembra essere la maturazione del figlio attraverso la libertà: il fatto che il figlio possa, guidato dal Padre, raggiungere la pienezza dell’essere – non copia speculare di Lui, ma se stesso. Un se stesso che però, paradossalmente, non può essere raggiunto se non attraverso la mediazione del Padre. Un altro aspetto per noi interessante è che queste figure bibliche appaiono talvolta così remote da sembrare prive di tempo: la loro universalità mette le loro vicende in una distanza che c’interessava provare a riverificare oggi.
Si tratta di uno spettacolo “religioso” o invece aperto a chiunque? E soprattutto: è comunque un testo teatrale, pur avendo questo legame con le Scritture?
Non è “comunque” un testo teatrale, è “solo” un testo teatrale, e non dico per sminuire la dimensione religiosa, ma anzi per esaltarla, giacché il teatro ha una natura di per sé religiosa. Senza andare a scomodare la nascita della tragedia greca, ogni segno teatrale non avrebbe senso se non fosse un’interrogazione dell’origine dell’uomo, una messa in discussione del senso del mondo. Credo anzi che la verità del fatto teatrale, quando avviene (e non sempre avviene), accade lì dove un attore riesce ad aprire uno spazio di verifica sul suo essere al mondo – mette in discussione in modo radicale la forma e la natura delle cose. Che il tema siano le Sacre Scritture o la vita quotidiana nella provincia russa a fine Ottocento, Esaù e Giacobbe o Romeo e Mercuzio, la posta in gioco è sempre la stessa.
Tra le figure di cui si parla ci sono anche Caino e Abele. Si tratta però di fratelli e non di padre e figlio…
Esatto, appunto perché i fratelli sono tali in quanto esiste un padre; l’essere fratelli è una condizione subordinata all’essere figli. E poi m’interessava lavorare sul fatto che l’essere figli (e, quindi, fratelli) non è una condizione automatica, ma uno spazio drammatico, uno spazio vuoto o pieno in cui ognuno è chiamato a rispondere. La storia di Caino e Abele mi sembrava, in questo senso, sempre contemporanea: due modi estremamente diversi di essere figli, in una vicenda dove essere figli significa rispondere alla domanda del Padre.