Se mai vi doveste domandare, cari lettori, che giorno è oggi, sappiate che si celebra la Giornata mondiale della felicità. Eppure, ci sarebbe poco da stare allegri (con la “a” minuscola, beninteso: a essere Allegri, con la “A” maiuscola, di motivi per sorridere ce ne sarebbero un po’ di più…), perché il World Happiness Report – la classifica annuale dell’Onu che mette in fila gli Stati più contenti – vede l’Italia solo al 47° posto. Il Paese più felice del mondo – udite, udite – è la Finlandia (“E ‘cce credo, là ce stanno le finlandesi!” esclamerebbe Francesco Totti, se chiamato a commentare la notizia). In seconda posizione si trova la Norvegia (contenti loro, contenti tutti) e al terzo posto la Danimarca. Ma qui il merito è tutto della hygge. Che cos’è la hygge?
Per rispondere, more solito, ci affidiamo al nostro amico Zingarelli, un vocabolario che sa tante cose perché le ha rubacchiate qua e là in giro per il mondo: “Intanto va subito precisato che non è l’abbreviativo del termine Rummenhygge, sostantivo che indica un sentimento di gioia molto profonda ma al contempo di compostezza di stampo teutonico, dovuta alla vittoria della squadra di calcio del cuore. L’hygge, invece, è una parola danese che esprime un’azione correlata al senso di comodità, accoglienza e familiarità. L’hygge ha come fine la ricerca di una felicità quotidiana concentrata su di sé. Per essere hygge bisogna allontanarsi dagli impegni della vita quotidiana, ricreando un ambiente rilassato dove godere appieno dei piaceri quotidiani che la vita offre”. Perciò… lo tsunami ha devastato ogni cosa intorno, ma non ha neppure lambito la vostra dimora? Forza e coraggio, siate hygge!
Grazie a Dio, però, noi italiani siamo più altruisti; magari un po’ lazzaroni, di sicuro però l’hygge, così come ci viene presentata, ci farebbe un baffo. Salvo importarla con uno stile tricolore. Una tendenza nazional-popolare con il divano, o, se preferite, il sofà, al centro della cultura del piacere quotidiano. Dunque, cari italiani, se abbiamo voglia di risalire la classifica del World Happiness Report, se desideriamo scalzare i Paesi scandinavi dal podio, dobbiamo convertirci, ciascuno secondo le proprie possibilità, alla divanoterapia. Una pratica del tutto mediterranea, che traduce con spirito libero i dettami, talvolta un po’ severi, delle regioni nordiche così apparentemente felici.
La divanoterapia (che non va assolutamente confusa con la “d’Ivano terapia” – questo non ben identificato Ivano puzza di ciarlatano lontano un miglio) è una tecnica emergente di benessere introdotta in Italia da sir Jacquard D’Ivanhoe, barone di Chateau d’Ax e padre di una corrente di pensiero chiamata “filosofà” (a tal proposito consigliamo la lettura del suo testo fondamentale, Storia della filosofà. Teorie e pratiche di chi cogita sul divano). Al centro delle sue riflessioni, ispirate dall’utilizzo del canapè (l’arte del fumo aspirato lentamente, che si pratica su e con la divanoterapia), troviamo il sofismo, quel pensiero che domina il soggetto impegnato in una lunga e comoda seduta (o sdraiata) sul sofà; si parla a tal proposito di soferenza, riferendosi allo stato d’animo che provoca un lancinante dolore (soprattutto interiore, più raramente anche fisico) che coglie chi compie l’atto del doversi sollevare dal sofà per rituffarsi nel logorio della vita extrasofica.
Nel suo manuale di filosofà, sir d’Ivanhoe elenca anche “I cinque princìpi fondamentali della pratica della divanoterapia”, che possiamo sintetizzare così:
1. Possedere un’attrezzatura adatta alla divanoterapia: senza un comodo divano, non si arriverà mai a un buon sofismo (vedi sopra);
2. Accostarsi alla pratica della divanoterapia con tecniche di rilassamento melodico: la musica è sempre un buon compendio (qui in Italia è consigliabile ascoltare D’ivanofossati, autore e cultore sofistico. L’incipit di ogni seduta di divanoterapia dev’essere sempre scandito da una precisa sequenza di note: do-re-mi-sofà, accompagnate da intensi respiri);
3. È buona norma ornare i muri della stanza dedicata alla divanoterapia con opere d’arte pittorica: non importa se di valore o meno, l’importante è che rispondano a determinati requisiti, che sono chiamati Divan Gogh;
4. Stare sul divano sotto (una) coperta è fondamentale per la meditazione, perciò: “Cogito terga sum… calidarium” (traducibile in “Penso quando le mie natiche sono… al caldo”);
5. Vano è il divano solo se viene spostato invano di vano in vano.
A questo punto, non resta che abbandonarsi alle rilassatezze della divanoterapia. I benefici nel tempo? È lo stesso sir D’Ivanhoe a elencarli: i soggetti che si sottopongono a sedute ripetute e prolungate, poi sfoderano una grande grinta, scattano come… molle e camminano sempre sul… velluto. Con uno slogan: (Di)vani, vidi, vici.