Steven (Allan) Spielberg: eterno fanciullo, Peter Pan con berretto da baseball e blue jeans, Re Mida di Hollywood. Tutte definizioni che andavano per la maggiore già a metà degli anni Ottanta, quando il regista, sceneggiatore e produttore di Cincinnati poteva vantare all’attivo pellicole come – a partire dal primo, grande blockbuster – Lo squalo (1975), Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), 1941 – Allarme a Hollywood (1979), I predatori dell’arca perduta (1981), E.T. – L’extra-terrestre (1982), Indiana Jones e il tempio maledetto (1984), delle quali solo 1941 poteva considerarsi l’unico, vero e clamoroso passo falso commesso al botteghino. Ed ecco però arrivare Il colore viola (1985) e, soprattutto, L’impero del sole (1987), entrambi tratti dai libri omonimi, il primo (1982, premio Pulitzer e National Book Award, sempre per la narrativa, nel 1983) della statunitense Alice (Malsenior) Walker (1944) e il secondo (1984) del britannico James (Graham) Ballard (1930-2009).
Il monumentale ed esemplare film tratto da quest’ultimo, «gioiello misconosciuto del periodo» (Clélia Cohen), compie oggi trent’anni, essendo uscito nelle sale cinematografiche degli Stati Uniti giusto il giorno di Natale. «L’Impero del Sole attinge alle esperienze da me fatte a Shanghai durante la Seconda guerra mondiale e nel CAC (Civilian Assembly Centre) di Lunghua, in cui sono stato internato dal 1942 al 1945, e si fonda in prevalenza su eventi di cui sono stato testimone durante l’occupazione giapponese di Shanghai e nel periodo d’internamento nel campo di Lunghua». Così scrive, nella breve nota posta all’inizio del suo romanzo, lo stesso Ballard – nato a Shanghai, dove suo padre lavorava -, che, dopo l’attacco a Pearl Harbor, era stato effettivamente internato in un campo di prigionia riuscendo a tornare in Inghilterra con i suoi familiari solo dopo la fine del conflitto, nel 1946.
La storia semiautobiografica che egli ne aveva poi tratto narra le vicissitudini di un bambino di origini inglesi (Jim Graham, dal nome dello scrittore) che, al momento dell’ingresso in città dell’esercito nipponico nel 1941, viene separato dai propri genitori (diversamente quindi da quanto capitato al vero Ballard) e si ritrova così a trascorrere gli anni della guerra da solo, passando da un campo di prigionia all’altro.
Steven Spielberg, in un’intervista dell’epoca, afferma che «[n]on ho potuto soffocare in me stesso la voglia inconscia di dirigere L’impero del sole che avevo sentito fin dal primo momento in cui avevo messo le mani sul libro. Anche se il protagonista è un ragazzo che scavalca l’adolescenza per diventare alla fine un vecchio saggio. L’impero del sole è un film sulla morte dell’innocenza. […] L’intero film è illuminato dall’esplosione dell’atomica su Nagasaki. Jim e l’intero mondo perdono la loro innocenza in quel flash accecante di luce bianca. Né Jim né il mondo saranno mai più gli stessi».
Si tratta del primo film hollywoodiano girato nella Repubblica popolare cinese, che – vista la voracità cinefila del suo regista – si pone in maniera del tutto naturale sulle più che nobili spalle di giganti come Fred Zinnemann (Odissea tragica,1948), Roberto Rossellini (Germania anno zero, 1948), François Truffaut (I quattrocento colpi, 1959), Andrej Arsen’evic Tarkovskij (L’infanzia di Ivan, 1962) e, ovviamente, David Lean (Le avventure di Oliver Twist, 1948; Il ponte sul fiume Kwai, 1957; Lawrence d’Arabia, 1962), che alla bella età di 79 anni avrebbe dovuto girare il film con Spielberg nelle sole vesti di produttore.
Una circostanza, quest’ultima, mai concretizzatasi eppure rintracciabilissima nella pellicola poi girata, come sintetizzato da Mauro Resmini nella sua recente monografia (Il Castoro, 2014) sul cineasta statunitense: «Del cinema di Lean, idolatrato da Spielberg, rimangono nel prodotto finale il respiro e lo sguardo: ne sono esempio […] anche i ripetuti movimenti di dolly che scandiscono le diverse fasi del film, da Shanghai al campo di accoglienza, fino al campo di prigionia: come in Lean, l’inquadratura si concentra sull’individuo e poi lo supera per mostrare spettacolari scene di massa. […] Con L’impero del sole […] Spielberg trova a tratti un equilibrio stilistico e narrativo che, per quanto frammentario e imperfetto, dà vita ad alcuni dei momenti più alti del suo cinema, diventando così l’imbocco di quel sentiero “serio” e impegnato che il regista seguirà a intermittenza da qui in avanti. […] L’impero del sole come […] grandioso affresco d’epoca, in cui le immagini smettono di essere grazioso corredo delle parole […] e si fanno carico non solo di narrare, ma anche di creare suggestioni e articolare metafore».
Un vero e proprio saggio di scrittura con la macchina da presa da rivalutare e che merita più di una visione da appassionati e non.