Era ipotizzabile che in un clima di incertezza politica e sbandamento qualcuno potesse farsi tentare dall’occasione, ma la velocità con cui gli eventi stanno accadendo lascia stupiti. Passi Bulgari passata a Lvmh a valori stellari e a prezzi che probabilmente sono quanto meno singolari per chi si fa due conti sul ritorno finanziario dell’investimento; passi, ma con tanto amaro in bocca per un pezzo purissimo di made in Italy che va a ingrossare ulteriormente un colosso del lusso che supera di almeno dieci volte il maggiore italiano. Vedersi soffiare Parmalat nel giro di due settimane scarse con Lactalis che si prende il 29% e non deve nemmeno lanciare l’Opa però sembra davvero troppo.
Ieri, infatti, il gruppo francese ha comunicato di aver comprato il 15% di Parmalat in mano a tre fondi esteri (Zenit Asset Management, Skagen As e Mackenzie Financial Corporation possedevano il 15,3%) aggiungendolo al 14% già posseduto. Per la cronaca, l’azienda di cui si tratta è la stessa Parmalat che è costata centinaia di milioni di euro ai risparmiatori italiani. La notizia del giorno offre talmente tanti spunti di riflessione che non si sa nemmeno da che parte iniziare tra colpe clamorose del “sistema italiano” e recriminazioni sulla perdita di un pezzo molto importante dell’industria italiana. Vi dicono qualcosa questi nomi: Danone-Pepsi, Saipem-Technip ed Enel-Suez? Se non vi dicono niente non vi preoccupate è tutto normale. Sono fusioni che non sono mai esistite.
Nel primo caso, Pepsi tentava di comprarsi Danone, ma il sistema francese levò un’opposizione così formidabile che non se ne fece niente; anzi, per non correre più il rischio Danone è stata dichiarata strategica per la Francia (andate a vedere cosa ha fatto il titolo dopo che è diventata “strategica”). Nel secondo caso, Saipem/Eni aveva cominciato a guardare Technip, probabilmente molto seriamente, ma “purtroppo” la notizia finì in mano a La Tribune e Les Echos (prima che ai giornali italiani) e l’Amf, la Consob francese, chiese subito spiegazioni a Eni; capito l’aria che tirava, Eni smentì tutto. Nel terzo caso, Enel stava studiando l’acquisizione di Suez da cui sarebbe nato un colosso europeo, in mani italiane. Peccato che Chirac decise di dichiarare che qualsiasi offerta su Suez sarebbe stata considerata ostile; nel frattempo, Gdf, controllata dallo stato francese all’80%, lanciava un’offerta su Suez blindando di fatto il mercato francese e sbattendo la porta in faccia a Enel.
Nel frattempo, Bnp comprava Bnl, Credit Agricole Cariparma e Friuladria, Edf Edison e così via (sicuramente ci siamo dimenticati qualcosa). Fino a qualche settimana fa, il secondo gruppo assicurativo italiano, Fondiaria-Sai, stava per trovare un nuovo azionista in Groupama. Poi ci sarebbe la questione Alitalia (non temete, finirà ad Air France: è solo questione di tempo); quella di Eurizon e Pioneer, rispettivamente primo e secondo player del risparmio gestito italiano, e “tra l’altro”, rilevanti detentori di debito pubblico italiano, su cui sono già sul tavolo offerte di gruppi francesi; non parliamo poi degli spettri transalpini che aleggiano da anni su Mediobanca (prima banca d’affari italiana principale azionista de Il Corriere della Sera) e Generali (prima assicurazione italiana) di cui proprio in questi giorni si sentono i colpi su porte e finestre.
In questi giorni, si è parlato di interventi italiani di Ferrero o Granarolo su Parmalat ed è stata perfino minacciata l’approvazione di una legge che impedirebbe l’esercizio del controllo da parte di Lactalis su Parmalat; ancora ieri, dopo il raggiungimento del 29%, si discuteva in modo quasi grottesco, come se il film dovesse ancora finire e non fossimo, invece, già da un pezzo ai titoli di coda. A questo punto i temi sono solo due.
Il primo è quello degli ultras del libero mercato. Avete presente i giapponesi che continuavano a combattere quando la guerra era già finita? Non c’è nessuna economia avanzata che sia così liberale in tema di industria “nazionale” come l’Italia. Quanto meno, in genere nel mondo si decide cosa può essere “ceduto” e cosa è di interesse “nazionale”. Perfino gli Stati Uniti hanno preteso il cambio di cittadinanza di Murdoch prima di farlo entrare nel mercato dei media domestico (è necessario essere cittadini americani per comprare emittenti televisive americane). Oggi, di fronte all’intervento umanitario dei francesi mossi unicamente da una straziante commozione per i destini dei libici, forse nessuno avrà così poco pudore da teorizzare la libera circolazione dei capitali, i mercati perfetti (ma in che film?), ecc.
La realtà è che su gasdotti, petrolio, nucleare, finanza, telecomunicazioni e chi più ne ha più ne metta si gioca la libertà di uno Stato e la possibilità che abbia o meno in mano i propri destini. Quale governo resisterebbe di fronte a rincari esagerati del gas o a black out elettrici? Può un governo decidere liberamente la politica economica se il giorno dopo i titoli di stato si sfracellano sul mercato perché qualcuno ha deciso di vendere? Ognuno risponda con un po’ di buon senso. Se l’Italia che non ha nucleare, materie prime, posti nel consiglio di sicurezza all’Onu, perde lusso e alimentare, due settori tipici del made in Italy cosa vuole diventare da grande?
Il secondo tema è che lamentarsi a cose fatte è da perdenti e da irresponsabili. Parmalat era lì da anni, scalabile e con più di un miliardo di euro di cassa, e nessuno si è posto il problema di darle un azionariato definitivo; nessun coordinamento, nessuna moral suasion nei confronti di nessuno. Ma d’altronde è mesi che ci si sbrana sugli ospiti arcoresi del presidente del consiglio e poi siamo in una dittatura e bisogna rovesciare il regime; cui prodest? Nel frattempo perdiamo pezzi di industria e uno dei nostri principali alleati energetici viene bombardato dagli “amici” europei (che però non hanno bisogno di gas e hanno le coste dall’altra parte del mare). A chi giova tutto questo? Certamente non all’Italia.