Fazio e Saviano non hanno nemmeno cominciato e già si autocelebrano come quelli che hanno deciso di ridare valore alle parole. Si toglie subito un sassolone dalla scarpa, Saviano: “Durante una puntata di Vieni via con me ci fu una rivoluzione perché osammo dire che c’era qualcuno che interloquiva con la ‘ndrangheta. Poi recentemente s’è scoperto che il tesoriere della Lega ci interloquiva eccome…”. Tolto il sassolone si comincia davvero.
Felicissima la scelta del tema musicale, come già fu quella della canzone di Paolo Conte. “Quello che non ho” ha tutte le caratteristiche adatte per costituire un tormentone talmente gradevole che non vi uscirà più dalla testa per giorni. Per il resto si capisce subito che siamo alla fotocopia di “Vieni via con me”: ospiti accuratamente scelti secondo i dettami del fazismo più dichiarato, pauperismo elegantemente mascherato, progressismo da salotto con qualche spruzzo di intellighenzia anticonformista, volenteroso volontariato sociale rigorosamente gauchista. C’era da immaginarsi la solita sapiente cura della musica, e infatti Elisa si cimenta da sola in una convinta versione molto minimalista al pianoforte di una famosissima canzone di Cat Stevens.
Figuriamoci se Saviano si fa mancare l’occasione di parlare dell’attualissimo binomio lavoro/suicidio. Scopre, novella Alice nel paese delle meraviglie, che lo Stato paga le imprese con troppo ritardo, come se i giornali non parlassero d’altro in questi giorni. A pensarci bene, il tono è quello della predica. Già Fazio sembra vestito con il clergyman, mentre Saviano, anche grazie all’eco offertogli dalla regia, ha una voce che sembra quella del vescovo che risuona in cattedrale, le cui colonne vengono apertamente simulate dalla scenografia. Ecco: nonostante la loro sbandierata laicità, i due vorrebbero interpretare il ruolo di coraggiosi sacerdoti laico-progressisti, che hanno il fegato di occupare per tre sere una tv per “parlare delle parole”…
Il deja-vu prosegue paro paro sulle orme di “Vieni via con me”: Saviano si butta sul tentativo di raccontare una delle tante inchieste sulla mafia, ma non riesce a essere drammatico pur cercando di imitare pedissequamente quel Paolini diventato celebre proprio su La7 con il suo teatro sociale (quello vero). Si tradisce quando gli scappa: “Cerco di dire troppe parole”. Ecco. Si commenta da solo. Strappa l’applauso solo perché cita alla fine qualche frase del celebre giurista Piero Calamandrei. Finalmente è il momento della pubblicità, che arriva quasi come una liberazione.
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Si riprende: Fazio saluta il sindaco di Torino che è seduto in primissima fila, precisando che “è presente in forma rigorosamente privata (ah questa è davvero buona!), come anche Zagrebelsky, eccetera”… guarda caso tutti membri stretti del circolo fazista. La Litizzetto dà subito del tu a Fassino facendo se stessa come se fosse a “Che tempo che fa”, ma oltrepassa il limite bene o male sempre rispettato su RaiTre, e mostra una insolita, assai crassa e alquanto sgradevole grossolanità. E meno male che era una trasmissione che si poneva l’obiettivo di “ridare valore alle parole”. Complimenti. A nulla serve il suo pistolotto finale contro gli uomini che picchiano le donne, recitato con voce tremante di costruita commozione: è stata sicuramente una delle peggiori performance di Luciana.
Finalmente torna la musica, e cominciamo a capire come si fa ad andare sul sicuro: basta pescare nella scuderia della Sugar di Caterina Caselli. Infatti dopo il pianismo minimalista di Elisa, è il momento dello stride-piano di una delle ultime scoperte di Caterina, Raphael Gualazzi, che – tanto per non sbagliare – si butta su uno stra-conosciuto Summertime.
Può apparire paradossale, ma questa riscossa della parola mette in crisi anche una gloria del cinema italiano come Pupi Avati. Gran raccontatore quando parla all’impronta, stasera incespica con difficoltà perché obbligato a leggere un testo che pur scritto da lui, sembra letto per la prima volta. Chi l’avrebbe mai immaginato: la melassa fazio-buonista riesce a umiliare proprio le parole che voleva celebrare, nonostante gli applausi a comando, come nella tv di una volta e di sempre. Uh, ma chi c’è ora in diretta da New York? Ma Carlin Petrini, perbacco, l’ideologo dello slow food e della cucina progressista, certamente bravo a scrivere, ma molto meno a leggere, anche lui imbarazzante come Avati. Guarda caso, un altro dello stretto circolo fazista. E così le parole, insolitamente maltrattate da cattivi lettori, vengono ulteriormente svilite. E infatti in prima fila tra il pubblico, scomodissimo su banchi da chiesa, ma in forma rigorosamente privata, si vede un Fassino annoiatissimo, persino quando Danilo Rea si autocelebra inneggiando ai suoi scritti antichi e contemporanei.
Tanto per non andare troppo lontano da “Che Tempo Che Fa”, ecco Gramellini, anche perché è di Torino. Che inneggia alla signora Kraft (“l’altra forza dell’Europa”), la socialista che ha battuto in Vestfalia la Merkel (“la Forza oscura dell’Europa”). Oramai hanno gettato la maschera: propaganda socialcomunista a tutto spiano, volgarità in libertà, retorica a buon prezzo, ecco cosa ci promettono i nuovi tempi del pensiero unico fazista-progressista.
Il secondo intervento di Saviano è dedicato alla “tragggedia” di Beslan. Roberto dice che nelle prove si erano chiesti se fare il pezzo perché gli sembrava troppo forte…ma poi hanno deciso di sì. Viene in mente Vespa, con i suoi plastici delle case in cui si sono svolti assassini efferati. Ricostruzioni completamente inutili, ma capaci di fare ascolto grazie ai particolari morbosi. Esattamente come quelli sadicamente raccontati da Saviano. Chissà, magari domani, se tanto ci dà tanto, ci racconteranno nei dettagli come si moriva nei lager nazisti. Per ora ci si accontenta di raccontare le perversità dei terroristi e dell’esercito russo, di quanto sa essere bestiale l’uomo in determinate condizioni. Ma a questo servono le parole?
Fortunatamente non finisce così: in studio c’è la presidente dell’associazione delle madri di Beslan. Seduta tra Fazio e Saviano che l’ascoltano con aria compunta, si domanda come sia stato possibile che le autorità e i servizi di sicurezza abbiano consentito avvenisse una tragedia del genere. Con grande dignità, propone di riflettere sulla parola “figlio”: ah, se avessero fatto parlare solo lei…ma lei non avrebbe certamente avuto lo sfrontato coraggio di raccontare gli atroci particolari che soavemente Saviano ci ha elencato, giusto per l’audience. Poi c’è un balletto sulla pietà, sulle note del solito indovinato saccheggio di buona musica, l’intramontabile Sound of Silence di Paul Simon.
Dopo la pubblicità, si parla di politica e antipolitica: a confronto (?!?) Marco Travaglio e Gad Lerner. Il vostro vecchio Yoda non aveva dubbi, ecco apertamente dichiarata l’idea fazista del pluralismo: due moralisti della stessa matrice ideologica che fanno la morale a tutti quanti. Uno pro e uno contro i partiti, ma entrambi di sinistra.
A spiegarci la parola finanza c’è un noto comico di destra: Paolo Rossi. Si sa, i fazisti sono molto pluralisti. Rossi spara sulle banche, che oggi è come sparare sulla Croce Rossa. Strappa qualche sorriso ai più benevoli. Ride lui più che altro alle sue stesse battute. Poi finalmente arriva uno che sa raccontare senza dover leggere: lo scrittore Erri De Luca. Descrive con grande poesia il ponte, “unica opera architettonica cordiale, perché unisce invece che dividere, come invece fanno i muri”. Un vero, ma assai solitario, cammeo: finora l’unico capace di celebrare davvero il valore della parola. Ma sono quattro minuti su tre ore!
Verso la fine, gran bel flop musicale: imbarazzante esecuzione di “Quello che non ho” da parte dei Liftiba e di Piero Pelù, un altro sicuro affiliato dello stretto circolo fazista. E quindi ce lo dobbiamo cuccare.
Vi pareva? Ecco la parola alla parola di Landini, segretario generale della Fiom: freddo. Quello sopportato dagli operai in cantiere la mattina. Se non altro ha il merito di essere brevissimo.
Si va a finire. Vi pareva anche che potesse mancare un discorso sul Pil di Bob Kennedy del ‘68? Lo critica, da miliardario, ma da miliardario di sinistra. E quindi perfetto per far parte del circolo fazista. Tormentone finale, del tutto uguale a “Che Tempo Che Fa”: Fazio e Saviano leggono messaggi su “quello che non ho”. Quando tocca alla Litizzetto, si ferma due volte a far prolungare gli applausi a due assai mosce, trite e scontate battute sul cardinale Ruini e sull’Imu della Chiesa. Questo è il fazismo che avanza: luogocomunismo puro. E il gioco di parole è voluto.
Quanto a Saviano, non si può non citare lo splendido Ferrara sul Foglio di ieri: “Una specie di Lapo in cerca di marketing sulle orme di Zuccotti Park: Saviano non sa fare niente e va su tutto, è di un grigiore penoso, e i madonnari che lo portano in processione dalla mattina alla sera gli hanno fatto un danno umano, civile, culturale e professionale quasi bestiale”.
Per il resto al vostro Yoda, riguardo alla trasmissione, non resta che dire che nonostante la montagna di promozione e pubblicità, La7 questa volta ha partorito un topolino, ma proprio piccolo piccolo. E qualcuno magari avrà pure il coraggio di parlare di nuova frontiera del servizio Pubblico! Aiutooooooo!