«Nel contributivo, cioè per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1995, i salari sopra 100mila euro – salari non pensioni – godono già della facoltà di non contribuire oltre al sistema pubblico; in altri Paesi, questo “opting out” non è gratis, ma sottoposto a un piccolo contributo per aiutare chi resta nel sistema pubblico. Penso se ne possa parlare. Ma non è un tema per l’oggi e con gli assegni pensionistici non c’entra». Questo brano è preso dall’ultima intervista di Tommaso Nannicini, lo stratega di Matteo Renzi, che, da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ha condotto il negoziato con i sindacati su lavoro e (soprattutto) pensioni, insieme al ministro Giuliano Poletti.
La proposta merita una spiegazione e talune considerazioni, perché in realtà si tratta di una variante del contributo di solidarietà sulle pensioni più elevate (da 90mila euro annui in su) che viene a scadenza alla fine dell’anno in corso e sul quale si è pronunciata recentemente la Consulta, ammettendone la legittimità, ma ribadendo, in modo conforme a una giurisprudenza costituzionale consolidata, che tale legittimità è condizionata a criteri di ragionevolezza, progressività, eccezionalità e temporaneità, tanto che non sarebbe ammessa, invece, una sua riproposizione.
Ne deriva – hanno scritto i giudici delle leggi nella sentenza – che “anche in un contesto siffatto (di crisi, ndr), un contributo sulle pensioni costituisce, però, una misura del tutto eccezionale, nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza”. Il contributo, poi, non può mettere a repentaglio “il principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato”. In sostanza, un contributo di solidarietà come quello sottoposto al sindacato di legittimità costituzionale sembrerebbe improponibile, tanto che il prof. Nannicini, nell’intervista citata, lo esclude. Ma – come diceva un uomo politico che ha attraversato l’orizzonte come una meteora – “se non è zuppa e pan bagnato”. Il contributo, anziché sulle pensioni, graverebbe sulle retribuzioni al punto da prefigurare persino una forma di tassazione anomala.
Ma come funzionerebbe il marchingegno? La legge Dini-Treu del 1995, nell’introdurre il metodo contributivo, stabilì che vi fosse un massimale retributivo e contributivo per le quote di retribuzione superiori a 132 milioni di lire (rivalutabili, tanto che adesso il tetto è attorno ai 100mila euro annui lordi). In sostanza, per coloro a cui si applica il sistema contributivo, le quote di retribuzione al di sopra del massimale non sono più sottoposte a prelievo contributivo e non concorrono a definire la cosiddetta retribuzione pensionabile (tanto che la legge Dini prevedeva agevolazioni per la loro allocazione in una forma di previdenza complementare private). Nel modello retributivo, invece, al di sopra di una remunerazione annua di 45mila euro (a cui è riconosciuto un rendimento del 2% per ogni anno di anzianità di servizio) opera un décalage progressivo fino allo 0,90% annuo (benché il lavoratore sia tenuto a versare la contribuzione piena fino all’ultimo euro percepito).
Se abbiamo ben compreso la proposta Nannicini, invece, per i soggetti inclusi nel regime contributivo sarebbe previsto un versamento “solidaristico” (quindi senza effetti sulla pensione) anche per l’intera quota di retribuzione (o per parte di essa) eccedente il tetto dei 100mila euro. Va da sé che, da una misura siffatta, non solo deriverebbero entrate assai limitate, ma, con ogni probabilità, la norma incorrerebbe in un giudizio di incostituzionalità.
Ciò per almeno due motivi se la Consulta è coerente con la sua giurisprudenza. In primo luogo, perché il contributo di solidarietà – sia pure girato sulle retribuzioni – sarebbe un modo per eludere l’eccezionalità e la temporaneità del contributo di solidarietà sulle pensioni più elevate; diventerebbe, poi, una tassazione di carattere straordinario limitata a una categoria di persone: su di una circostanza siffatta la Consulta si è già pronunciata in modo negativo. In secondo luogo, vi sarebbe un prelievo contributivo che non determina rendimento di carattere previdenziale. Anche su questo punto, la Corte si è già pronunciata in senso contrario in passato, quando nel sistema era operante un massimale pensionistico che non aveva corrispondenza sul versante dei contributi. Il meccanismo del rendimento previsto nel modello retributivo fu individuato (con la legge n.88/1989) proprio per ovviare alla dissociazione prima esistente tra i due massimali (retributivo e contributivo).