L’interessante “confronto dialettico” a distanza tra Gianni Credit e Mauro Bottarelli stimola a diverse riflessioni su aspetti già in parte affrontati in un precedente articolo.
Senza dubbio vi sono attualmente elementi che possono spingere a un cauto ottimismo, come un certo coordinamento internazionale, anche se minimo, e l’interventismo dei governi che, pur problematico sotto vari profili, al momento porta evidenti benefici. Soprattutto, è stato assorbito lo choc iniziale e ci si sta abituando a convivere con la crisi. Correndo esultanti verso traguardi sempre più eccelsi, braccia e occhi levati al cielo, non abbiamo badato alle pietre disseminate da noi stessi e siamo inciampati, crollando rovinosamente al suolo. Ora ci siamo rialzati e abbiamo ripreso il cammino, barcollanti e zoppicanti, non possiamo certo correre, né escludere qualche altro capitombolo, ma speriamo di potercela fare ancora una volta. Anche se qualcuno si illude di evitare i costi della lunga camminata e qualche furbo continua a tirare sgambetti al prossimo.
I furbi non sono la sola ragione del clima di sospetto e della cautela verso le rassicurazioni che vengono elargite. Non solo gli economisti, ma governi e autorevoli istituzioni, dalle banche centrali al Fondo Monetario Internazionale, hanno continuato a modificare in modo geometrico le stime dei costi della crisi. Per mesi si è indicato il principale problema nella difficoltà di stabilire la quantità di prodotti “tossici” in circolazione, e ora è difficile credere che la situazione sia improvvisamente tornata sotto controllo. Si è detto che, data la situazione, le banche stesse non si fidavano l’una dell’altra, costringendo così le banche centrali a fornire la liquidità necessaria, ma tuttora siamo in presenza di una pesante stretta creditizia.
Eppure, sarà difficile parlare di una ripresa concreta senza ripristinare un clima generale di fiducia, compito questo che richiede il coinvolgimento di molti attori. In primo luogo delle autorità monetarie che, senza inutili allarmismi ma con realismo, dovrebbero comunicare dati il più possibile definitivi sui costi di risanamento del sistema bancario, accompagnandoli con strategie credibili di rientro. Sono convinto che operatori economici e gente comune siano disposti a sopportare costi, anche gravi, in vista di obiettivi chiari e raggiungibili per uscire dalla crisi e ripartire su basi più solide.
In secondo luogo, l’Unione Europea dovrebbe varare, se è impossibile una strategia comune, almeno una piattaforma di azione condivisa che individui i punti nevralgici su cui agire. Forse si potrebbero così evitare errori disastrosi come il rifiuto di un piano di salvataggio per i nuovi membri dell’Europa dell’Est, la cui crisi sta mettendo a repentaglio l’intera Unione. E poco serve la retorica della Grande Europa se finisce per nascondere solo gretti egoismi nazionali.
Ai governi nazionali compete di gestire la crisi nell’immediato, senza dimenticare il quadro a lungo termine, evitando di farsi condizionare soltanto da interessi immediati, magari elettorali, come evidente nel recente caso Opel. Per esempio, il nostro governo, che come gli altri stampa carta moneta ( una volta si chiamava creare inflazione) per fornire liquidità al sistema bancario, potrebbe invece utilizzarla per pagare “sull’unghia” i propri fornitori, togliendo così migliaia di piccole imprese dalla morsa ricattatoria delle banche.
Ed ecco il punctum dolens, le banche. Si era detto che il sistema bancario della Vecchia Europa, quella non anglosassone, era immune dal tornado. Non è vero, ma nessuno, né vertici bancari, né controllori, sembra disposto a riconoscere errori, anzi, assumono atteggiamenti da vestali della corretta amministrazione e non esitano a elargire lezioni di morale e di etica degli affari, come se non c’entrassero nulla con Cirio, Parmalat o i bond argentini, per rimanere a casa nostra. E guardandosi bene dallo spiegare nell’interesse di chi partecipano al capitale e ai patti societari di aziende come Telecom Italia o RCS. Per poi porre un mucchio di restrizioni a quello che dovrebbe essere il loro mestiere: prestare soldi alle imprese che sostengono la nostra economia, in particolare alle Pmi.
Infine, gli imprenditori, chiamati a riprendere il senso profondo del fare impresa. Ai manager è richiesto un impegno di gestione e di lealtà nei confronti della impresa per cui lavorano e di non badare esclusivamente ai propri personali interessi, come successo invece in troppe aziende negli Usa e non solo. Agli imprenditori è richiesto di più: coraggio, inventiva, capacità di rischio e l’impegno anche del proprio patrimonio. Credo che ciò stia accadendo in molte imprese, soprattutto medie e piccole, ma troppi pseudo-imprenditori considerano l’azienda come una mucca da mungere e basta. Compresi alcuni grandi nomi della nostra industria. Difficile sottrarsi a questa impressione nei riguardi, ad esempio, degli Agnelli che hanno sempre evitato di mettere propri soldi in Fiat, a parte una parentesi con Umberto. Ora che un manager di livello come Marchionne, preso il posto di gente capace solo di fare PR e cucina politica, sta tirando la Fiat fuori dal marasma, si vocifera che gli Agnelli pensino di monetizzare e investire in altri loro affari.
La colpa non è, tuttavia, solo degli Agnelli e degli “imprenditori” alla loro maniera, ma anche di quella stampa e di quegli ambienti politici che hanno avuto, e hanno, interesse a permetterlo, a spese degli altri imprenditori e dei contribuenti. Non a caso, gli studiosi definiscono il nostro come un capitalismo “di relazione”, ma senza capitali, o meglio, i cui capitali vengono utilizzati per altro. Eppure, sono convinto che esistano ancora imprenditori disposti a investire i loro soldi per salvare l’azienda, ma costoro non possiedono giornali, non siedono nei consigli delle banche, non frequentano la finanza internazionale, si limitano a fare il loro mestiere. Solo per loro merito usciremo dal guado, ma essendoci entrati già con la bronchite, vediamo di non restarci troppo a lungo, se non vogliamo buscarci una polmonite doppia.