Spagna-Italia di domani sarà un’altra partita rispetto a quella vista a Danzica un 10 giugno che pare ormai lontanissimo. Non lo sarà perché gli azzurri hanno raggiunto una maturità di gruppo e una consapevolezza dei propri mezzi inimmaginabile un solo mese fa. E si tratta di due aspetti che finiscono per dare ragione alle convinzioni di Cesare Prandelli che, da sempre, ha sottolineato che anche per la Nazionale occorre un lavoro metodico e cadenzato nel tempo come nei club, da dove lui arriva. Solo in questo modo si raggiunge un’identità di squadra. Il problema, per il ct, è stato quello di essersi scontrato con il solito piccolo egoismo che caratterizza le nostre società. Quelle che si riempiono costantemente la bocca di grandi idee e che litigano in ogni occasione quando si ritrovano in Lega, incapaci della minima progettualità (esclusa l’attuale Juventus). L’augurio è che abbiano imparato da quanto sta proponendo l’Italia e che non si vadano a nascondere dietro la solita foglia di fico, in caso di un’eventuale vittoria che – come nel 2006 – servirebbe unicamente ad allontanare la soluzione dei problemi che affliggono il nostro calcio.
E che cosa sta insegnando l’Italia? Che un nuovo calcio è possibile. Lo si è intravisto contro l’Inghilterra, è deflagrato in maniera clamorosa contro la Germania. Giustamente si era elogiato il lavoro che i tedeschi sono andati a fare in profondità, alla ricerca di un linguaggio comune basato sul talento. L’altra sera, però, è emerso che il talento dev’essere sempre sorretto dalla personalità, quella mancata contro l’Italia. Un aspetto su cui lo staff della Nazionale dovrà lavorare in profondità per chiudere il cerchio. La personalità che invece gli azzurri stanno evidenziando con sempre maggiore determinazione. Merito dei più anziani del gruppo, che spiegano ai giovani come ci si districa a livello internazionale. Merito di Prandelli che, invariabilmente, ha cercato di insegnare calcio ed etica a chi è stato coinvolto nel progetto. E ora che i risultati cominciano a dargli ragione, si evidenziano i primi segnali di stanchezza del ct. Lui, con onestà, non nega come gli manchi la quotidianità del campo e, al tempo stesso, sottolinea che comunque nessuno andrà via.
Il suo sfogo è parso più una chiamata alle proprie responsabilità da parte di chi decide piuttosto che il desiderio di interrompere un progetto che ha come traguardo finale il Mondiale brasiliano nel 2014. Quindi un affondo nei confronti delle società, che fanno di tutto per non assecondare le richieste del ct (anche minime, come quella di veloci stage in preparazione del torneo). E un appello alla Figc, datrice di lavoro di Prandelli che potrebbe – e dovrebbe – essere più decisa quando deve reclamare spazi e attenzione per la sua squadra. Ma se ne parlerà dopo la finale di Kiev, meglio concentrarsi prima sul campo.