È di pochi giorni fa la presentazione di un interessante rapporto, curato da Fondazione Paoletti, sul tema, ormai forse abusato, del rapporto tra i giovani e il lavoro che si focalizza, in particolare, sulle prospettive e sulla ricerca di senso che questi danno alle loro professioni. Ed è l’occasione per fare un quadro di chi sono i ragazzi degli anni ‘10 e qual è la loro visione del lavoro e del mondo che sono chiamati a vivere.
Emerge così che il giovane di oggi è informato sulle politiche che gli vengono, in questo periodo, dedicate e le valuta e le critica esprimendo, in generale, poca soddisfazione per le azioni messe in campo con riferimento al tema dell’occupazione giovanile. Per i giovani di oggi, evidenzia sempre lo stesso studio, il lavoro è, prima di tutto, sinonimo di espressione di se stessi, delle proprie capacità a partire da ciò che appassiona e ciò che piace.
Il lavoro, insomma, non ha solo il senso di “mantenersi”, ma nasce dal profondo, come una necessità dell’uomo, e mette in gioco anche il proprio mondo valoriale e il senso stesso della propria vita. Da questo discende, potremmo dire ovviamente, che autonomia, autoimprenditorialità e realizzazione professionale personale sono più forti in chi persegue una ricerca strutturata e personale di senso nel proprio lavoro, mentre, al contrario, lo sono meno in chi vive il lavoro come un mezzo per contribuire, soprattutto, al bene della collettività.
Altresì, sebbene non si evidenzi un legame esplicito tra le fasi di sviluppo della personalità dei giovani e la tipologia, e la qualità, delle relazioni sociali che influenzano la progettualità (anche) professionale, emerge, certamente, una relazione positiva tra una ricerca forte di senso nel lavoro e il riconoscimento del valore della famiglia intesa come tipologia di relazione sociale primaria.
I ricercatori, insomma, sembrano invitare tutti i soggetti, a vario titolo interessati, ad aiutare i giovani a mettere, di nuovo e prima di tutto, al centro desideri e aspirazioni personali, senza le quali il lavoro sembra non avere, appunto, senso, e favorire una migliore, e maggiore, consapevolezza degli scenari futuri del mondo del lavoro e su come questo si stia, velocemente e inesorabilmente, trasformando.
Se, tuttavia, questo è il quadro, si deve sottolineare che, probabilmente, le giovani generazioni sono migliori di come vengono, da molta pubblicistica, descritte (choosy, bamboccioni, ecc.) e che, analisi alla mano, la soluzione al grande dramma della disoccupazione, e dell’inattività, dei nostri ragazzi non la si trova né in qualche decreto, né in qualche, sempre nuovo, bonus “una tantum”.
La strada da percorrere, infatti, sembra quella più difficile dell’educazione. Un percorso, sicuramente, più arduo e che coinvolge tutti, a partire da famiglie e formatori, e per il quale, nel caso di insuccesso, non possiamo, ahimè, dare la colpa alla politica e a qualche riforma, più o meno, incompiuta.