Pierluigi Bersani ha avuto l’investitura popolare che chiedeva. Dal ballottaggio delle primarie esce come il futuro candidato del centrosinistra a Palazzo Chigi. Il risultato del secondo turno sembra superiore alle previsioni: più o meno il 60 per cento contro il 40 di Matteo Renzi. Il calo netto di votanti va a discapito – paradossalmente – del sindaco di Firenze che aveva battagliato alla vigilia per allargare la platea degli elettori. L’unica regione in cui Renzi è andato in testa è la sua Toscana. Il centrosinistra ha preferito l’«usato sicuro» emiliano al «chilometro zero» fiorentino.
A spoglio avvenuto si potranno fare i calcoli precisi, ma fin d’ora sembra che Renzi non ce l’avrebbe fatta anche se fossero andate a votare tutte le decine di migliaia di persone che avevano chiesto di esprimersi al secondo turno senza aver votato al primo. Quindi la sconfitta è chiara, non dovrebbero esserci ulteriori polemiche sulle regole.
Bersani ha il merito di aver voluto le primarie, di averle volute con il ballottaggio e di essere riuscito a coagulare attorno a sé i tre avversari non approdati al secondo turno. Le primarie si sono rivelate una colossale campagna mediatica, un enorme spottone pubblicitario per il centrosinistra che Rai e Sky hanno fatto a gara per gonfiare. I numeri dicono che le precedenti primarie del Pd e dell’Unione avevano portato ai seggi più gente. Eppure stavolta si magnifica la grande voglia di partecipazione, il desiderio di democrazia, l’attrazione esercitata sulle masse dal «nuovo» Pd.
Di Grillo, che pure lancia da oggi le sue «primarie» su internet, nessuno parla più: è sparito dalla scena mediatica nonostante i sondaggi continuino a stimare i Cinque stelle come secondo partito italiano tra il Pd e i brandelli di Pdl.
In questa grande campagna mediatica il Pd emerge come partito che litiga al proprio interno ma riesce a restare unito. Che promette di tenere assieme due idee diametralmente opposte di sinistra come quelle espresse da Bersani e Renzi. Di allearsi contemporaneamente con la sinistra radicale di Vendola e i centristi di Casini. Di riassorbire un corpo oggettivamente estraneo come il «renzismo» in un organismo ingessato e burocratizzato come l’erede del vecchio Pci.
Insomma, dopo un anno di appoggio al governo Monti in cui ha dovuto votare provvedimenti che gridavano vendetta alla tradizione della sinistra storica, le primarie hanno ripulito il Pd, l’hanno lavato, centrifugato e stirato. La «buona politica» contro il populismo. L’esperienza contro il giovanilismo. Le garanzie dell’establishment contro l’imprevedibilità del «nuovo». Tutto ciò a fronte del vuoto pneumatico nel campo avverso, il centrodestra. Un viatico ideale per presentarsi alle urne che contano, quelle delle elezioni politiche.
I nodi da sciogliere restano parecchi. Innanzitutto la strategia elettorale di Bersani: quale riforma elettorale spingerà? Che schema di governo proporrà? Insisterà per imbarcare i moderati di Casini? E come concilierà − per esempio sui temi eticamente sensibili − le richieste dei cattolici e quelle della sinistra vendoliana?
Poi ci sono la questioni interne al Pd. Che peso vorrà conquistare Renzi nel partito? In che misura Bersani terrà conto di un’esigenza comunque fortissima di rinnovamento interno? Come conciliare la massiccia avanzata dei renziani con le guarentigie richieste dai dinosauri democratici tipo D’Alema, Bindi, Fioroni, Veltroni? E come ricompensare anche la Puppato e Tabacci, che con i loro voti hanno contributo a indirizzare l’ago del ballottaggio verso Bersani?
Gli interrogativi sono parecchi. Ma al momento su tutto fa premio l’immagine di un partito che cambia, si muove, si evolve. È già qualcosa, nella palude generale.