Con il ritiro dell’offerta da parte della società CAI, sembra accantonato salvo sorprese ulteriori il piano Fenice di privatizzazione di Alitalia. Per ragioni sia di metodo che di merito non mi sento di rimpiangerlo:
1. per ragioni di metodo: si trattava di una soluzione non di mercato ma di Stato, concordata dalla politica con un gruppo di imprenditori, assemblati da Banca Intesa, e che si è cercato di imporre a tutte le altre parti (sindacati, lavoratori, consumatori, antitrust, commissario di Alitalia);
2. per ragioni di merito: il piano industriale proposto, pur noto solo nei suoi dati essenziali, risultava di difficile realizzabilità e presentava incoerenze tutt’altro che trascurabili.
Il piano Fenice era antitetico al mercato. Nel mercato, infatti, un bene (e anche un’azienda) è venduto a chi è disponibile a pagarlo (in genere a chi è disponibile a pagarlo di più). Nel caso Alitalia, invece, ad Air France che era disponibile a pagare per acquisirne l’intera proprietà, accollandosi tutti i debiti e assumendo l’80% dei dipendenti, è stato impedito di comperarla. A CAI, invece, che non era disponibile a pagarla, è stato “tagliato” un abito normativo su misura che le permettesse di acquistare à la carte solo gli asset più interessanti, lasciando i debiti alla bad company, e di farlo a trattativa privata, evitando quindi il confronto con chi fosse disponibile a offrire di più.
Per quanto riguarda il piano, inoltre, esso imponeva ai contribuenti (che ne avrebbero fatto volentieri a meno) di pagare per sette anni senza metter piede sugli aerei l’80% dello stipendio a 3mila (ma forse anche 4 o 5mila) dipendenti considerati in esubero per farli smettere di volare. E questo quando vi sono invece diversi milioni di consumatori (24 nel 2007) disposti su base volontaria a pagare almeno il 90% dello stipendio a tutti i dipendenti purché siano in grado di farli viaggiare in aereo alle tariffe abituali (non propriamente da vettore low cost). Questa disponibilità a pagare noi economisti la chiamiamo “domanda”.
Con la rinuncia di CAI a costruire una new company con gli asset migliori di Alitalia, l’altra compagnia, quella dei contribuenti, è un pò meno bad e il mercato si è preso una bella rivincita bloccando sedici strani imprenditori, che dovremmo chiamare “imprenditori di Stato” e rispetto ai quali erano senz’altro più trasparenti le vecchie partecipazioni statali degli anni ’70-’80. Per farlo si è avvalso di sei sindacati dei quali tutto si può dire tranne che del mercato siano amici; ci sembra un bel contrappasso, una rivincita del mercato sullo Stato in un periodo nel quale il primo non se la passa notoriamente troppo bene. Infatti, se Alitalia fallirà, come non speriamo, sarà una soluzione di mercato e se Alitalia sarà finalmente venduta prima del fallimento a chi forse è ancora disponibile a pagare per averla, sarà un’altra soluzione di mercato e molto meno traumatica della precedente.
Perché è fallita la trattativa
La trattativa è fallita per l’eccessiva penalizzazione, non giustificata da un punto di vista di strategia industriale, che il piano CAI avrebbe voluto imporre al fattore lavoro in termini di minore occupazione e minori livelli retributivi. Air France secondo il piano del marzo scorso avrebbe ridotto le attività di Alitalia di circa il 22% (nel 2008 rispetto al 2006), ma con l’orario estivo 2007, entrato in vigore a inizio aprile, Alitalia ha già realizzato autonomamente una riduzione dell’offerta del 16%. Il piano CAI riduceva invece del 44% (il doppio di Air France) l’insieme di Alitalia e AirOne, in realtà assorbendo il 100% degli aerei di AirOne e solo il 40% di quelli di Alitalia.
Non sono notoriamente tenero con i sindacati e ne ho criticato in molte occasione il ruolo improprio di azionisti di fatto delle aziende pubbliche che perdura nella totalità di esse ed è permesso dalla latitanza della politica. In questa occasione sarei stato d’accordo se CAI avesse detto: «Signori, non c’è posto per tutti e i costi industriali di Alitalia per posto km offerto sono troppo elevati rispetto alla disponibilità a pagare dei consumatori; è quindi necessario risparmiare il 30% del costo del personale (ad esempio attraverso: dipendenti -16% e salari pro capite -16%)». Invece è stato detto: «Signori, poiché useremo solo 137 aerei rispetto ai 243 delle due compagnie (perché anche se i passeggeri ci sarebbero non abbiamo abbastanza soldi per far volare più aerei) allora nella CAI c’è posto solo per il 60% dei piloti (e degli altri lavoratori) e ad essi daremo solo il 70% della remunerazione precedente (in questo modo risparmiando a spese dei lavoratori ben il 58% della precedente massa salariale)».
Le frasi in parentesi non sono state ovviamente esplicitate ma non occorreva essere dei falchi per desumerle. Poiché neanche O’Leary di Ryanair avrebbe preteso tanto, non mi stupisce che i sei sindacati abbiano detto no alla proposta, evitando a noi consumatori il primo caso al mondo di una compagnia low cost e high fares (a basso costo, bassa concorrenza ma alte tariffe). Colaninno si è opposto ai sindacati con finalità almeno in parte rilevante non condivisibili: far ricadere sul personale il fatto che la cordata ha messo a disposizione troppo pochi soldi rispetto a quelli necessari (servirebbero infatti almeno 2,5 miliardi per rilanciare la compagnia). I sindacati si sono opposti per ragioni, almeno in questo caso, condivisibili.
I numeri incoerenti del piano industriale
A differenza di Veltroni che ha detto di avere stima nell’imprenditore Colaninno, a mio avviso un bravo imprenditore dovrebbe essere in grado di predisporre piani d’impresa ineccepibili, a maggior ragione se implicano oneri per la finanza pubblica. Il piano CAI, invece, che non risulta essere stato valutato da advisor indipendenti prima che il governo se ne facesse garante in maniera acritica verso i media e l’opinione pubblica, presenta numeri chiave contradditori e di impossibile realizzazione.
Il piano prevede infatti una consistente riduzione degli aerei utilizzati dalla nuova compagnia: 137 nel primo anno di attività, destinati a salire poco sopra i 150 negli anni successivi, a fronte di oltre 240 impiegati complessivamente da Alitalia e AirOne nel 2007. La riduzione è consistente e supera il 40%, così come quella del personale (da 21.500 occupati complessivi delle due aziende a 12.500 dipendenti della nuova compagnia più 1.500-2.000 esternalizzazioni). A fronte di una diminuzione così elevata nei fattori produttivi, il fatturato e i passeggeri trasportati si ridurrebbero invece, secondo i numeri indicati dal piano, in misura trascurabile: il fatturato previsto nel primo anno di attività è indicato dai media in 4,3 miliardi di euro (destinati a crescere negli anni successivi sino a 5,2 miliardi) mentre il dato aggregato di Alitalia e AirOne era nel 2007 di 4,9 miliardi; inoltre, a fronte dei 31,5 milioni di passeggeri totali di Alitalia e AirOne nel 2007, trasportati da oltre 240 velivoli, ve ne sarebbero ora, sempre secondo i media, 28 milioni nel primo anno trasportati da appena 137 aerei.
La mia stima, come ho già avuto occasione di scrivere in un precedente contributo, è che con soli 137 aerei non si possano superare i 22 milioni di passeggeri anno (pur incorporando una crescita notevole del load factor) e anche qualora tutti gli aerei viaggiassero sempre con tutti i sedili occupati non si potrebbero superare i 26-27 milioni (visto che non si possono trasportare persone in piedi, nella stiva o sulle ali). Infatti nel 2007 i due vettori hanno complessivamente offerto 44 milioni di posti, corrispondenti a 181 mila posti annui per velivolo. Di questi 44 milioni di posti 31,5 sono stati venduti e i rimanenti hanno viaggiato vuoti. Nel 2009 se i 137 aerei previsti offriranno ancora 181 mila posti annui ciascuno, CAI arriverebbe ad un’offerta totale annua di 24,8 milioni di posti. È possibile che ogni aereo offra più posti all’anno solo compiendo più voli; ipotizzando ottimisticamente un 10% di voli in più si arriverebbe a 27,3 milioni di posti sui quali non si possono tuttavia sedere 28 milioni di persone. Da qui la mia previsione di 22 milioni di passeggeri, corrispondenti ad un tasso di occupazione dei posti di poco superiore all’80%.
Ma 22 milioni di passeggeri non possono garantire 4,3 miliardi di ricavi se non attraverso un incremento delle tariffe superiore al 20% e un tale incremento non è realizzabile se non eliminando totalmente la concorrenza dal mercato. Inoltre 22 milioni di passeggeri implicano che altri 9,5 milioni di viaggiatori pur essendo disponibili a pagare tariffe non da vettore low cost non troveranno posto a bordo delle nuova compagnia.
Cosa bisogna fare per uscire dall’attuale impasse
Per uscire dall’attuale vicolo cieco sono necessarie a mio avviso le seguenti azioni:
1. In primo luogo la richiesta pubblica da parte della gestione commissariale di Alitalia a manifestare interesse per l’acquisto dell’azienda o di sue singole attività. Questa azione è stata avviata solo nella giornata di ieri, dopo oltre tre settimane dalla nomina del Commissario. In maniera corretta avrebbe invece dovuto essere emanata già ai primi di settembre, in modo da verificare la possibilità di offerte più favorevoli rispetto a quella di Cai.
2. Rivedere profondamente il piano industriale, cancellando la riduzione dimensionale del vettore. Una compagnia in ritirata, non in grado di presidiare il mercato, non potrà avere alcun successo. È già stato un errore grave sia la riduzione permanente di attività dopo il 2001 sia quella realizzata ad aprile scorso e non è il caso di insistere in questa direzione. A mio avviso, inoltre, il Commissario ha precisi compiti in tema di elaborazione di un piano di ristrutturazione e non può delegare il medesimo in via esclusiva ai possibili acquirenti.
3. Creare le premesse affinché i dipendenti possano sottoscrivere azioni di una nuova società destinata ad acquisire Alitalia. I dipendenti potrebbero pervenire ad una sottoscrizione di un centinaio di milioni di euro e destinare all’iniziativa anche il fondo per il trattamento di fine rapporto, avvicinandosi in tal modo ai 300 milioni complessivi. L’annuncio di ieri da parte dei sindacati autonomi dei piloti e assistenti di volo copre pienamente questa esigenza.
4. A condizione che la nuova azienda non riduca ulteriormente l’attività rispetto ai livelli attuali, i dipendenti dovrebbero accettare ex ante rispetto a qualsiasi manifestazione esterna di interesse una riduzione salariale annua a parità di lavoro attorno al 15% (Di più di tale percentuale per i piloti, di meno per gli altri dipendenti). Nella giornata di ieri i sindacati autonomi hanno manifestato disponibilità verso i possibili acquirenti ad accettare il contratto di un grande vettore europeo con la parte economica ridotta del 30%. Ritengo che questa formulazione sia sostanzialmente equivalente alla mia proposta.
5. Questi impegni dei dipendenti dovrebbero essere in grado di segnalare ai possibili investitori esteri che Alitalia sarà gestibile nei prossimi anni dal punto di vista delle relazioni industriali. L’arrivo di un partner straniero, inevitabile nel medio periodo se si considera la rapida ricomposizione dei cieli europei (in pochi mesi annuncio di fusione tra British e Iberia, acquisto di Brussels da parte di Lufthansa e messa in vendita di Austrian) , a sua volta è una condizione ormai indispensabile anche a breve per convincere i consumatori che Alitalia volerà anche nelle prossime settimane e mesi e indurli in conseguenza a riprendere le prenotazioni e a far riaffluire ricavi.
6. Nella sua azione il Commissario deve saper valorizzare gli asset pregiati della compagnia i quali sono essenzialmente due: i passeggeri (24 milioni di clienti nel 2007, disposti complessivamente a spendere oltre 4 miliardi di euro l’anno) e gli slot (circa 500 diritti di decollo e atterraggio al giorno in aeroporti italiani e altri 150 nei principali aeroporti europei e di altri continenti). Su 4 miliardi di euro di ricavi una buona compagnia europea dovrebbe essere in grado di realizzare un Ebit tra i 200 e i 400 milioni, cifre tali da poter dire che il gioco dell’inserirsi nel mercato, rilevando il principale operatore nazionale, vale la candela.