Alla faccia della tregua. «Le forniture di gas russo a Kiev cesseranno se Naftogas non completerà entro questa settimana i pre-pagamenti per il mese di marzo», ha dichiarato Serghiei Kuprianov, portavoce del colosso russo Gazprom, subito incalzato anche da Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino. E ancora, «la cifra pagata in anticipo dalla parte ucraina basterà per le forniture di gas per 3-4 giorni e se non arriveranno altri pagamenti Gazprom sospenderà le forniture», ha seccamente ribadito il presidente russo Vladimir Putin, precisando che «è chiaro che questo può rappresentare una minaccia al transito del metano russo verso l’Europa».
Una chiara ritorsione di Mosca nei confronti della decisione del governo ucraino di tagliare le forniture di gas alle zone occupate dai separatisti, descritta con questa frase dal numero uno del Cremlino – «Puzza un po’ di genocidio» – ma anche un messaggio nemmeno troppo in codice all’Ue, ancora prona verso Washington e la sua volontà di fiaccare Mosca attraverso l’irrigidimento delle sanzioni. Peccato che Mosca stia vincendo e alla grande, visto che i danni che sta infliggendo all’economia ucraina sono molto più pesanti e più rapidi di quelli che Europa e Stati Uniti stanno portando alla Russia attraverso le restrizioni economiche e di scambio commerciale. E a dirlo non sono io, ma le cifre e il mercato, il quale ieri ha spedito ai minimi storici il prezzo dei bond ucraini e nell’ultimo mese ha visto dimezzare il valore della hryvnia, la moneta locale, tanto da costringere la Banca centrale a rafforzare i controlli sul capitale per evitare un aggravarsi degli outflows di denaro verso l’estero.
Insomma, se non arrivano e in fretta i 17,5 miliatdi di dollari di prestito d’emergenza da parte del Fmi Kiev rischia il default all’inizio della primavera, visto che deve ristrutturare 16 miliardi debito in valuta estera. Soltanto tra cedole e servizio per il pagamento degli interessi su bond denominati in euro, quest’anno l’Ucraina deve sborsare 5,4 miliardi di dollari, a fronte di riserve che sono crollate del 64% rispetto allo scorso anno, raggiungendo quota 6,4 miliardi di dollari, come ci mostra il grafico a fondo pagina, mentre il credit default swap a 5 anni è tornato ai livelli pre-crisi finanziaria. L’obbligazione benchmark con scadenza luglio 2017 ha raccolto investitori per 2,6 miliardi di dollari, ma oggi viene trattata a 41,3 centesimi sul dollaro, quando solo il 12 febbraio, giorno dell’annuncio del prestito del Fmi, prezzava 57 centesimi e viaggiava sulla parità soltanto lo scorso luglio: una china da Lehman Brothers.
Esattamente come quella della valuta, visto che la hryvnia ieri viaggiava a 33,5 sul dollaro rispetto a 9,725 di un anno fa, rendendo le dinamiche del debito di fatto insostenibili sul breve termine se non si riesce ad arrestare il crollo: miracoli dei colpi di Stato sponsorizzati dal Dipartimento di Stato. Con il principale comparto industriale messo fuori uso dai combattimenti nelle regioni di Donetsk e Lugansk, il Pil del Paese si è contratto del 7,5% lo scorso anno, stando a stime dello stesso Fondo monetario internazionale, con una netta accelerazione del calo nel quarto trimestre, quando il Pil è sceso del 15,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il peggior risultato da cinque anni a questa parte. E per l’anno in corso c’è poco da festeggiare, visto che il ministro delle Finanze, Natalie Jaresko, ha previsto ottimisticamente un calo solo del 5,5%.
Insomma, o gli aiuti internazionali bloccati dallo scorso settembre da veti incrociati, instabilità politica e discussioni sulle condizioni del salvataggio arrivano a giorni oppure potrebbe essere game over, facilitando non poco il lavoro a Mosca, ma innescando anche ulteriore instabilità e il rischio di un pericoloso vuoto di potere a Kiev.
Per Otilia Dhand, analista alla Teneo Intelligence di Bruxelles, «la velocità nel prendere le decisioni di Mosca è stata decisamente maggiore rispetto a quella di Usa e Ue e questo ha rappresentato un vantaggio per i russi. Il dolore può essere inflitto più in fretta di quanto possa essere somministrato il rimedio». E con il bond denominato in euro che ha perso il 26% del suo valore solo quest’anno, il peggior risultato tra le 58 nazioni tracciate dall’Emerging Markets Sovereign Bond Index di Bloomberg, difficilmente il Fmi potrà tirarsi indietro nei confronti di Kiev, perché sono i mercati che cominciano a innervosirsi e ritengono impossibile abbandonare a se stesso un Paese malgovernato per oltre 20 anni che ora non solo deve dar vita a riforme ma anche a un ben più preoccupante processo di ristrutturazione del debito.
Inoltre, il crollo della valuta nazionale sta portando ulteriore stress finanziario, visto che aumenta i prezzi dei beni importati, inclusi gas e petrolio, e fa lievitare i costi di rifinanziamento del debito estero. E se l’ex primo ministro ucraino, Sergey Arbuzov, ha chiaramente detto in un’intervista alla Tass che «visto il crescente malcontento popolare, un altro colpo di Stato non può essere escluso», l’attuale esecutivo fantoccio di Kiev si trova ad affrontare lo spettro di Weimar: ovvero, l’iper-inflazione già presente. Se infatti la Banca centrale ucraina ha vietato alle banche di comprare valute estere per conto dei propri clienti questa settimana, l’altro giorno sulla moneta ucraina non si registrava alcun tipo di trading a nessun tasso, questo nonostante le banche possano fare trading tra di loro se vogliono: la hryvnia è nel limbo, una moneta-zombie. I cambia-valute nelle strade di Kiev stanno vendendo limitati ammontare di dollari a 39 hryvnia, il 20% peggio del tasso sponsorizzato sulle vetrine della banche commerciali, dove però i dollari non sono disponibili e contro il tasso ufficiale di 33, in continua caduta.
Con mossa degna della peggior finanza creativa, a mezzogiorno di mercoledì la Banca centrale si è poi di fatto inventata un tasso di cambio, portando il valore da 33 a 24 hryvnia, ma questa valutazione artificiale colpisce solo gli esportatori, i quali sono obbligati a vendere il 75% dei loro introiti in valuta estera proprio alla Banca centrale a quel tasso. Una mossa tanto disperata da aver innescato un battibecco tra il primo ministro, Arseniy Yatsenyuk, e il capo dell’Istituto centrale, Valeriya Hontareva, visto che il primo dichiarava senza vergogna di aver appreso della decisione sul tasso di cambio da Internet, definendo «la situazione molto complessa e capace di influenzare negativamente l’economia del Paese», mentre la seconda ribadiva che «tutte le nostre misure amministrative sono coordinate con il Fmi e solo poi implementate». Insomma, da un lato capite chi comanda a livello monetario a Kiev e dall’altro che razza di cervelloni del forex albergano a Washington. Il caos, condizione primigenia del collasso di una nazione negli abissi dell’iper-inflazione.
Stando a dati riferiti da Ria martedì scorso, con il nuovo tasso di cambio applicato il salario minimo in Ucraina è di circa 42,90 dollari al mese, più basso che in Ghana e Zambia e il governo ha già escluso piani per l’aumento dello stesso prima del prossimo dicembre. E ancora: i prezzi degli alimentari alla produzione sono saliti del 57,1%, con il livello di quelli di vegetali e granaglie su del 91% dal gennaio dello scorso anno, mentre nello stesso periodo il tasso d’inflazione ufficiale è stato “solo” del 28,5%. Per tutta risposta, gli ucraini hanno tagliato i loro acquisti in hryvnia del 22,6%, una percentuale che corrisponde a un calo dei consumi reali del 40%.
Sempre Ria, riferisce di un lavoratore edile che, dopo aver cambiato dollari nel chiosco di cambio di una drogheria, è tornato con un sacchetto stracolmo di hryvnia e ha dichiarato sogghignando: «Presto dovremo andare in giro con le valigie per mettere dentro il denaro, come negli anni Novanta». E se da un lato viene da ridere quando, come fanno a Goldman Sachs, si addebita il collasso della hryvnia «al finanziamento monetario dei deficit fiscali ucraini», visto che come mostra il primo grafico a fondo pagina, lo sta facendo tutto mondo attraverso gli acquisti da parte delle Banche centrali di ogni singolo dollaro di debito sovrano emesso, dall’altro il tempo stringe davvero. L’Ucraina ha contante sufficiente a coprire solo 3 settimane di importazioni: le riserve sono infatti scese a 6,4 miliardi di dollari a gennaio (4 settimane di import) e a febbraio dovrebbero calare tra i 5,5 e i 5 miliardi di dollari (tre settimane di coperture import), ma a questa cifra va tolta un miliardo in oro, quindi le riserve liquide arriverebbe a 4-4,5 miliardi di dollari questo mese, ovvero due settimane e mezzo di import.
E come stanno reagendo gli ucraini a questa situazione e all’annuncio del presidente Poroshenko riguardo il fatto che il governo farà tutto quanto in suo potere per fermare il calo della valuta? Cercano di preservare il minimo di ricchezza che hanno facendo una sola cosa, comprando oro fisico, come ci dimostra il secondo grafico che mostra l’aumento del prezzo dell’oro spot denominato in hryvnia. Insomma, Putin sta vincendo la guerra economica contro Kiev. E non lo dimostra solo lo stato disperato in cui versa l’Ucraina, ma anche alcuni indicatori economici, come ad esempio il fatto che – nonostante le sanzioni e il conflitto in atto – la Borsa di Mosca è quella maggiormente performante a livello globale da inizio anno.
Già, non ci crederete ma l’indice principale della Borsa moscovita ha già piazzato un lusinghiero +27%, contro il +2,8% dello Standard&Poor’s 500 e il +13% dell’Eurostoxx 600. E proprio dalle piazze finanziarie di New York e Londra, i due paesi maggiormente determinati nella guerra contro Vladimir Putin, emergono i primi contrarians verso il mercato russo, ovvero investitori che scommettono su ciò che dagli altri è visto come troppo rischioso o poco profittevole. E lo fanno per cinque ragioni. La prima, sono convinti che i mercati stiano prezzando il rischio che in Ucraina la situazioni degeneri e si arrivi allo scenario estremo, cosa che invece a loro modo di vedere non capiterà. Secondo, il “magazine indicator”, ovvero quando i media offrono la prima pagina a un fatto, significa che per il mercato contrarian quell’accadimento ha raggiunto il bottom del ciclo e quindi è ora di comprare. La copertina dell’Economist di qualche settimana fa ha acceso molte spie in tal senso. Terzo, è difficile trovare un consenso generale positivo sull’investire in Russia: altro segnale chiaro per i contrarians che è arrivata l’ora. Quarto, Putin non è così anti-occidentale come sembra e anzi vuole fare di Mosca uno dei principali centri finanziari del mondo. Quinto, il petrolio, che pesa per il 25% del Pil russo, per il 68% dell’export e per il 50% delle entrate federali. Scommettere sulla Russia oggi, con il petrolio ai minimi, significa scommettere sula risalita dell’oro nero e questa non potrà tardare ancora troppo a palesarsi, nonostante l’aumento delle scorte e la produzione in continuo aumento a fronte di scarsa domanda. Il petrolio è un bene cui non si può fare a meno, è una voce economica di lunga durata e quindi Mosca ha solide basi economiche, cui va unito un debito pubblico bassissimo e riserve auree in continua espansione come garanzia per il rublo in caso di eventi particolari.
Insomma, come dice il mio primo editore e amico, Putin è un giocatore di scacchi mentre Obama lo è di poker. E uno scacchista batte sempre un pokerista. Chissà che finalmente lo capiscano anche a Bruxelles che stanno facendo la guerra al nemico sbagliato. Oltretutto, perdendola.