Concludendo un precedente articolo in cui descrivevo alcuni comportamenti di consumo dei primi anni del dopoguerra, mi chiedevo se questi comportamenti, peraltro difficili da riproporre ai nostri giorni, potessero darci qualche valida indicazione per le nuove politiche di consumo, e quindi di produzione, cui si dovrà quanto prima por mano. Sempre più spesso si sente infatti parlare della necessità di abbandonare modelli di sfrenato consumismo e di tornare a un tipo di vita più sobrio, modificando l’attuale cultura del consumo.
La crisi economica sta già portando ad una contrazione selettiva dei consumi, derivante dalla diminuita possibilità o propensione alla spesa, e si è ormai entrati in una fase in cui la diminuzione dei consumi porta a una diminuzione della produzione, con conseguente riduzione della disponibilità di spesa che induce a un ulteriore ridotto consumo, in un circolo vizioso che ben mette in risalto le inscindibili relazioni tra consumi, produzione e reddito. Inoltre, la contrazione dei consumi esterni, rappresentati dalle esportazioni, hanno portato al centro della questione la domanda interna.
Vi è quindi un’apparente contraddizione tra la richiesta di un modello di vita più sobrio e i tentativi di fermare la pesante diminuzione del Pil e uscire quindi dalla crisi. In effetti, gli austeri stili di vita dell’immediato dopoguerra corrispondevano a un reddito disponibile molto più basso del pur ridotto livello attuale: il successivo boom economico, il cosiddetto “miracolo italiano” degli anni ‘50, fu infatti contraddistinto da un continuo e cospicuo aumento dei consumi e della produzione, quindi del reddito.
Per uscire dal dilemma credo occorra una vera e propria rivoluzione culturale, che richiede innanzitutto dei “buoni maestri”, dei buoni maestri di vita. Politici, economisti, scienziati e via dicendo, verranno dopo per realizzare il nuovo modello che scaturirà dalle indicazioni di questi “buoni maestri”: per noi cattolici, una cattedra c’è già, la Dottrina Sociale della Chiesa, e c’è almeno un maestro buono, Benedetto XVI, del tutto sufficienti per cominciare. Chi viene da altre tradizioni, forse è meglio che inizi rapidamente la sua ricerca.
Dal punto di vista dei consumi, il confronto con il passato mette in luce la differenza tra una cultura “a perdere” e una “a rendere”, che non riguarda solo i vuoti del latte. La nostra è diventata in generale una “cultura a perdere” che ha profondamente influenzato il nostro modello economico e di lavoro, per cui è diventato più “economico” riacquistare un elettrodomestico o un telefono che farli riparare, investire in confezioni degradabili per consentire di smaltire “velocemente” i rifiuti, piuttosto che riutilizzare le confezioni là dove possibile, e così via.
Tutto ciò sembrerebbe ragionevole sotto il profilo produttivo, perché se la vita media di un elettrodomestico si riduce dai 15/20 anni di una volta a 7/8, le sue vendite raddoppiano, aumentano i ricavi dell’azienda, aumenta la produzione, i posti di lavoro e i conseguenti redditi, in un apparente circolo virtuoso. Salvo poi trovarsi, come attualmente, di fronte a eccessi di capacità produttiva in molti settori, con conseguenti dolorosissimi ridimensionamenti. Qui è di certo mancata una corretta politica industriale, che ripone però il problema dei limiti dell’intervento dello Stato, se si vogliono evitare gli estremismi dell’astratto ottocentesco laissez faire, laissez passer e dello statalismo sovietico.
Si tratta quindi di ristudiare l’intero modello produttivo del Paese, cercando di trasformare in opportunità le difficoltà che emergono dall’attuale crisi, rivalutando diversi modelli di consumo e il ruolo centrale del lavoro, recuperando il valore del lavoro manuale e dando uno spessore non strumentale ai “nuovi lavori”. In questo ripensamento occorre tener conto della responsabilità nei confronti degli altri Paesi, soprattutto di quelli più poveri, il cui sviluppo è essenziale anche al nostro, come risulta chiaro anche dall’ultima enciclica.
La “cultura a perdere” ha anche influenzato l’uso del tempo, la nostra è la prima epoca nella storia in cui il tempo libero non è più ricchezza, o problema, solo delle classi agiate: anche su questo vi sarebbe molto da riflettere, se non altro per la vera e propria industria che ne è derivata. Ma questa “cultura a perdere” coinvolge anche aspetti non immediatamente economici, come una certa interpretazione dei rapporti tra uomo e donna o tra madre e figlio. Ciò che serve è proprio una profonda rivoluzione culturale.