Com’era prevedibile, data la situazione del settore energetico, Eni ha comunicato la sospensione delle procedure di vendita del suo 43% in Saipem, pur ribadendo la sua scelta strategica di scorporare la società dal suo perimetro, in vista di una razionalizzazione delle attività del gruppo. Una scelta che desta molte perplessità sotto il profilo strategico e che sembra avere piuttosto ragioni finanziarie, dato il pesante indebitamento di entrambe le società, operanti in un settore che richiede forti investimenti di lungo termine.
Se la vendita di Saipem può rispondere a una logica finanziaria di Eni, che ridurrebbe il proprio indebitamento, è difficile pensare che corrisponda agli interessi dell’Italia la cessione di una società di eccellenza in un settore nevralgico come quello energetico. Sarebbe (condizionale d’obbligo) ragionevole aspettarsi ora un intervento del socio di riferimento, il governo, a partire da una valutazione della situazione attuale e delle prospettive future per le due società.
Il dato di partenza è il crollo del prezzo del petrolio a poco più di 60 dollari al barile, con una previsione per il prossimo anno nell’area degli 80 dollari al barile, insufficiente per le esigenze finanziarie di molti Stati produttori, oltre che per gli utili delle compagnie petrolifere.
Come illustrato dal professor Sapelli su queste pagine, per molti Stati, soprattutto in via di sviluppo, le entrate petrolifere sono essenziali per il proprio bilancio e per finanziare il sistema sociale, la cui messa a rischio porterebbe a gravissime conseguenze, anche geopolitiche. È quanto sta succedendo con l’attuale guerra dei prezzi guidata dall’Arabia Saudita e il rifiuto a ridurre la produzione a fronte della contrazione di domanda derivante dalla perdurante crisi economica. Di conseguenza, molte compagnie petrolifere stanno riducendo o cancellando i piani di investimento nella ricerca di nuovi giacimenti e, secondo una ricerca riportata da Mauro Bottarelli, si prevede una riduzione degli investimenti di circa un terzo, pari a circa 150 miliardi di dollari, per il prossimo anno.
Quadro non esaltante per Saipem, già alle prese con i problemi derivanti dalla rinuncia russa al gasdotto South Stream, vicenda affrontata nella recente riunione dei ministri dell’Energia dell’Ue in modo quantomeno surreale. In conseguenza della mancata realizzazione del gasdotto, il Cda di Saipem ha annunciato minori ricavi per 1,25 miliardi di euro per il 2015, più i costi derivanti dal fermo delle navi posatubi e per materiale già acquistato. Né la situazione di mercato lascia intravvedere facili soluzioni alternative nel breve-medio termine.
Il titolo Saipem è crollato in Borsa, perdendo circa il 50% negli scorsi mesi e tornando ai livelli di dieci anni fa e a un quinto di quelli massimi raggiunti in passato. Difficile pensare che il valore reale dell’azienda si sia ridotto in queste dimensioni e, tranne che per gli speculatori di brevissimo termine, Saipem dovrebbe essere ora un titolo molto attraente sul medio-lungo termine.
È necessario, però, che l’azionista di riferimento aiuti la società a delineare chiare strategie, oltre che difendere uno stabile assetto azionario, indispensabili per un Paese come il nostro così esposto sul fronte energetico.
Assumendo la necessità per Eni di uscire dall’azionariato, il suo disimpegno potrebbe essere graduale con un progressivo passaggio di quote a investitori istituzionali italiani, come la Cassa depositi e prestiti, o fondi di investimento come il F2i, partecipato dalla stessa Cdp. Magari, approfittando del probabile prossimo aumento di capitale, che sta deprimendo i corsi in Borsa.
Circa l’apertura di nuove possibilità per Saipem, nella citata riunione di Bruxelles, dopo una sceneggiata su South Stream finalizzata a scaricare la colpa del fallimento sul solo Putin, si è parlato di un rafforzamento della rete di rigassificatori di gas liquido, ma gli attuali prezzi minano sempre più la redditività anche di questi impianti, e di una ristrutturazione “verticale” della rete di gasdotti esistente, in modo da far fluire il gas dal nord al sud dell’Europa.
Si è anche presa in considerazione la costruzione di un gasdotto per portare in Italia, attraverso Cipro e la Grecia, il gas israeliano del Mediterraneo, ipotesi molto caldeggiata da Tel Aviv, che presenta notevoli difficoltà tecniche nelle quali Saipem potrebbe far valere la propria esperienza. Tuttavia, su quei consistenti giacimenti di gas rivendicano diritti di proprietà anche palestinesi, Libano e Turchia, e la realizzazione del progetto si presenta estremamente complicata.
Molte speranze sono riposte dall’Ue, e dal nostro ministro Guidi, sul Tap, il gasdotto che dovrebbe portare il gas azero in Italia, previsto operativo per il 2019, ma che ha la capacità di circa un sesto del South Stream. Né Eni, né Saipem sono presenti nel progetto.
L’ultima possibilità rimasta per Saipem, che richiede una forte volontà politica, è il trasferimento del contratto da South Stream al nuovo gasdotto per il quale Russia e Turchia hanno già firmato una lettera di intenti. Anche questo gasdotto, con la stessa portata di South Stream, passerebbe sotto il Mar Nero, arrivando però in Turchia e non in Bulgaria. Gazprom è anche in questo caso la società leader e il progetto, almeno per il tratto sottomarino, non sembra molto diverso dal precedente in cui era impegnata Saipem.
C’è da sperare per Saipem che a questo trasferimento si riferisse Descalzi quando parlava, in termini un po’ bellicosi, di rispetto dei termini contrattuali tra Saipem e Gazprom.