Dei derivati “greci” della Repubblica italiana, su queste pagine ci siamo occupati per tempo e diffusamente:(quiqui) quando Mario Monti – ministro del Tesoro di se stesso, nel marzo del 2012 -accettò una “stop loss” da 2,4 miliardi su una posizione aperta con la Morgan Stanley. La relazione di Via XX Settembre all’Economia – rilanciata con grande clamore da Financial Times e Repubblica – non ha aggiunto dettagli di merito a quanto era emerso un anno fa: né a favore degli “allarmisti” – che continuano a non avere tutti i torti – ma neppure dei “minimizzatori”, fra cui – inevitabilmente – il ministro dell’Economia di turno, Fabrizio Saccomanni.
Allora, in ogni caso, non ci colpì tanto la vicenda in sé: per quanto una perdita potenziale da 8 miliardi (allora come allora) non fosse affatto insignificante per le disastrate finanze pubbliche italiane. Segnalammo invece l’anomalia istituzionale che a rispondere in Parlamento a una circostanziata interrogazione su una vicenda talmente delicata l’esecutivo avesse spedito il sottosegretario al Miur, Marco Rossi Doria. Passi che il Premier avesse altro da fare, ma disertò anche il viceministro Vittorio Grilli, anche lui in duplice incarico, essendo stato Direttore generale del Tesoro dal 2005. Anche lui, evidentemente, aveva buone ragioni per non esporre il suo volto a difesa di un dossier che si era trovato sulla sua scrivania già quasi ingiallito di una decina d’anni: quando premier tecnico era Carlo Azeglio Ciampi (poi superministro dal ’96 al ’99 con Romano Prodi) e capo dei “civil servant” era Mario Draghi, poi banchiere d’affari alla Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia e presidente della Bce.
Nei primi anni ’90 erano – eravamo – tutti più giovani e ottimisti: la finanza derivata sembrava essere uno dei tanti “prodigi della tecnica” di un’età dell’oro che sembrava definitiva. Per questo non ci stracciavamo le vesti ex post in sé: può succedere. Ma un magistrato come Ilda Boccassini o un collega come Marco Travaglio concorderebbero che chi esercita funzioni pubbliche deve essere sempre pronto a rispondere di quanto ha fatto: se, per esempio, ha condotto una (molto presunta) trattativa con la mafia negli stessi anni in cui venivano stipulati i primi swap sul debito pubblico italiano; oppure se ha procurato disdoro all’immagine della Repubblica, con i propri comportamenti (anche solo privati) oppure siglando contratti-capestro con una banca d’affari internazionale, come neppure uno sprovveduto assessore di Provincia.
Invece la Procura di Roma ha aperto sì un fascicolo, ma contro i giornalisti “della Repubblica”: in prima linea, peraltro, fino a poco tempo fa, sul fronte di altri derivati anomali, quelli del Montepaschi. E la Procura di Siena ha già spedito al processo l’ex presidente Giuseppe Mussari per i contratti stipulati dal Monte con Nomura: e il capo d’imputazione principale non è la perdita (reale) procurata, ma è non aver dato adeguata trasparenza alle operazioni di indebitamento strutturale, «ostacolando» la vigilanza della Banca d’Italia.
La terza Repubblica – cioè una Repubblica italiana con un effettiva «credibilità», politica e finanziaria – potrà iniziare solo quando gli italiani – politici, banchieri, magistrati e giornalisti – perderanno il vizio di mescolare ogni mattina i nomi sull’eterna lavagna dei buoni e dei cattivi.