Lo scorso 19 ottobre, alla settima lettura, è stato approvato in via definitiva il “Collegato Lavoro”. Il testo legislativo ha tenuto conto dei rilievi sollevati dal Presidente della Repubblica, che lo scorso marzo aveva rinviato la legge alle Camere.
Tra le numerose modifiche introdotte si segnalano l’intensificazione dei controlli sulle frodi contributive, l’ampliamento del perimetro dell’apprendistato (con possibilità di assolvere l’ultimo anno di obbligo scolastico in azienda), la modifica della disciplina in materia di conciliazione e arbitrato e dei termini per l’impugnazione del licenziamento.
Con le nuove disposizioni, il tentativo di conciliazione, che finora costituiva una condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria, torna a essere facoltativo (salvi casi residuali), così com’era stato sino al 1998, mentre si prevede che le parti possano affidare a un Collegio arbitrale la risoluzione di tutte le controversie di lavoro. In tal caso continua a essere contemplata (anche dopo i rilievi del Colle) la possibilità che le parti chiedano una decisione secondo equità, ma si precisa che ciò deve avvenire “nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti dagli obblighi comunitari”.
È inoltre prevista la facoltà di pattuire clausole compromissorie al fine di devolvere preventivamente ad arbitri le eventuali controversie di lavoro. Tale possibilità è tuttavia ammessa entro precisi limiti: deve essere prevista dai CCNL e riguardare materie diverse dal licenziamento; inoltre la pattuizione deve essere certificata da apposite Commissioni anche al fine di accertare l’effettiva volontà delle parti. Per assicurare una piena libertà negoziale nel decidere di aderire o meno alla clausola compromissoria, il Legislatore ha poi disposto che la clausola non possa essere sottoscritta prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto, oppure, in tutti gli altri casi, prima del termine di trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto.
Ulteriori novità riguardano i termini per l’impugnazione giudiziale del licenziamento. Ai sensi dell’art. 32, all’impugnazione in via stragiudiziale, che continua a dover essere proposta a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, deve seguire, pena la perdita di efficacia di tale impugnazione, il deposito del ricorso giudiziario (o la richiesta di conciliazione) entro il successivo termine di duecentosettanta giorni (laddove fino a oggi la giurisprudenza ammetteva il ricorso entro 5 anni, o addirittura nel termine decennale).
La riduzione dei termini per l’impugnazione, che ha il pregio di dare maggiore certezza alle situazioni giuridiche “pendenti”, si applica anche ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro o all’illegittimità e nullità del termine apposto al contratto, al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, al trasferimento del lavoratore, alla cessione di contratto per trasferimento di azienda e a ogni altro caso in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.
Quanto alle clausole generali, si introduce il principio già recepito dalla giurisprudenza secondo cui in materia di instaurazione del rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e licenziamento, il controllo giudiziale non può estendersi al merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente. È anche previsto che il giudice debba tener conto, nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento, delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo presenti nei contratti collettivi nazionali o nei contratti individuali (ove stipulati con l’assistenza delle Commissioni di certificazione), nonché considerare gli elementi e i parametri fissati dai medesimi contratti collettivi anche nella definizione delle conseguenze da riconnettere al licenziamento in “tutela obbligatoria”, valutando inoltre le dimensioni e le condizioni dell’attività aziendale, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore e il comportamento delle parti anche anteriore al licenziamento (salta il riferimento, presente nel testo precedente, alle “fondamentali regole del vivere civile e dell’oggettivo interesse dell’organizzazione”).
Come appare evidente, la nuova normativa contiene variegati (e in gran parte condivisibili) “ritocchi” all’attuale sistema giuslavoristico, che peraltro ha ormai acquisito una peculiare stabilità e coerenza interna anche in virtù di una lunga e consolidata prassi giurisprudenziale.
Tale sistema normativo, sul piano “patologico”, si regge su una scarsa tutela dei lavoratori occupati nelle piccole aziende (con meno di 16 dipendenti) normalmente non sindacalizzate, dove si può licenziare anche senza “giustificato motivo” indennizzando il lavoratore con un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità, e su una “ipertutela”, pressoché unica al mondo, dei lavoratori occupati nelle aziende di maggiori dimensioni, nelle quali licenziare un dipendente nella prassi “costa” quattro o cinque volte tanto e non è neppure sempre possibile, come dimostra anche il caso recente della reintegrazione dei tre lavoratori licenziati dalla Fiat a Melfi. E anche dopo il licenziamento, gli “ammortizzatori sociali” apprestati per i dipendenti delle aziende più piccole sono largamente inferiori a quelle previste per i “fratelli maggiori” delle aziende più grandi.
È un sistema fortemente sperequato che vige da oltre quarant’anni (l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori risale al 1970) e che si è sempre curiosamente sottratto alla censura di incostituzionalità per violazione del principio di uguaglianza. Eppure pochi giorni fa l’Istat ha diffuso gli ultimi dati dai quali risulta che il 94,7% delle aziende italiane, pari ad oltre quattro milioni, occupa meno di 10 addetti e che i lavoratori “figli di un dio minore” costituiscono ormai poco meno della metà dei lavoratori italiani (anche perché gli occupati della grande industria sono da anni in calo).
Di fronte a questo sistema normativo ha quindi un rilievo minimale la querelle che si è aperta sull’arbitrato e su cui autorevoli commentatori si sono già diffusamente espressi anche su queste pagine. Infatti, già dove l’arbitrato è da tempo previsto, come nel caso dei dirigenti di azienda o nelle fattispecie contemplate dalla contrattazione collettiva o ancora presso le Direzioni Provinciali del Lavoro, le parti, e primariamente le aziende, lo hanno scarsamente utilizzato, ritenendo comunque più “affidabile” il ricorso alla magistratura del lavoro, che nonostante tutto funziona decorosamente anche a motivo di un sistema processuale funzionale e collaudato nel tempo.
Forse, più che ampliare l’arbitrato, è giunto il momento di rimuovere vetusti tabù ideologici e porre termine a questa enorme diseguaglianza, mediando tra le tutele previste per i lavoratori delle piccole imprese (che di norma non scendono in piazza) e le ipertutele garantite ai lavoratori delle imprese medio-grandi che hanno concorso a determinare il nanismo di molte piccole aziende e l’indebita esplosione negli ultimi venti anni delle più disparate forme di collaborazione atipica (dal milione e più di contratti a progetto fino ai contratti a termine). Anche questo è certamente un fattore di competitività e di sviluppo nel nostro Paese richiesto ormai da più parti per evitare la delocalizzazione e salvare il lavoro delle nuove generazioni.
Ma la vera sfida si gioca non tanto e non solo sul piano “patologico”, quanto propriamente sul terreno dello sviluppo e delle politiche attive del lavoro, come peraltro venerdì ha osservato su questa testata il Senatore Ichino. Penso in particolare alla centralità della formazione professionale, dell’orientamento, dell’alternanza scuola lavoro, dello sviluppo e della tutela del lavoro femminile e a tempo parziale, del telelavoro, della semplificazione delle norme, della riduzione del cuneo fiscale, degli ammortizzatori sociali (che sono stati particolarmente efficaci in questo ultimo biennio di crisi), del sostegno all’innovazione, allo sviluppo e all’incontro tra la domanda e offerta di lavoro.
Si tratta di una sfida antropologica e culturale che chiama tutti, ciascuno per la sua parte (lavoratori, imprenditori, sindacati, politica), a recuperare il senso del lavoro come espressione di sé e costruzione di un bene comune superando il modello ideologico della conflittualità imprese/ lavoratori che giova solo a una politica e a un sindacato che sopravvive sul contrasto ostinato e irresponsabile e sulla lotta sociale ad ogni costo.
Da questo punto di vista, anche il modello della “partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa”, proposto dal Ministro Sacconi e rilanciato anche dai più autorevoli e responsabili esponenti del mondo imprenditoriale e sindacale e da ultimo dal segretario Cisl Bonanni che ha parlato pochi giorni fa a questo proposito di una possibile ”rivoluzione rispetto ai vecchi rapporti industriali”, va certamente nella giusta direzione.