Alla fine di un’edizione del Festival di Cannes non memorabile come altre recenti (la nostra preferita è quella del 2011, con The Tree of Life, The Artist, Drive, This Must be The Place, Il ragazzo con la bicicletta, Miracolo a Le Havre…), la giuria presieduta da Jane Campion ha operato scelte nette, discutibili – come lo sono peraltro sempre i palmarès – ma con una chiara impostazione. Fin dall’inizio la Campion aveva alluso alla possibilità di consacrare qualche outsider, a dare forza a quella tendenza che vede un grande festival come quello francese capace di compiere il percorso di crescita di un autore che diventa all’improvviso popolare. A lei stessa, con la vittoria di Lezioni di piano (ma anche con i film precedenti, passati sempre a Cannes o Venezia), successe tale consacrazione.
Era evidente che non avrebbero avuto vita facile i film più da “grande pubblico”, posto che oggi nessun film da festival ha la vita futura spianata. E ricordando che all’epoca Lezioni di piano era un film su cui si sarebbe potuto scommettere anche oltre il suo passaggio a Cannes. Oggi non è così, perché i premiati rimangono outisider anche dopo aver vinto…
Il vincitore, il turco Nuri Bilge Ceylan, in realtà era un predestinato da tempo alla Palma d’oro. Tra gli addetti ai lavori, anche chi non lo amava particolarmente sapeva che prima o poi avrebbe portato a casa il premio principale: la sua è stata una crescita progressiva, dal Gran Prix speciale della Giuria per Uzak (film alla Antonioni, capolavoro per la critica e ostico per un pubblico “normale”, come il successivo Il piacere e l’amore) al premio per la miglior regia per Le tre scimmie, e di nuovo Gran Prix speciale della Giuria per il fluviale ma più intenso C’era una volta in Anatolia, Ceylan non solo entrava con regolarità nelle scelte di giurie sempre diverse e nella classifiche di gradimento dei critici, ma stava rendendo il suo stile sempre più moderno e meno lento e compiaciuto.
Percorso completato con Winter Sleep, che a dispetto della lunghezza monstre di tre ore e un quarto e dei suoi dialoghi fitti e molto esistenziali, ha impressionato addetti ai lavori e giuria per un ritmo teso e coinvolgente. In Italia non lo ha ancora acquistato nessuno, ma sicuramente il premio aiuterà a trovare una distribuzione; meno certa la strada verso il pubblico, comunque impervia.
Discorso analogo per Le meraviglie, sorpresa assoluta che batte bandiera italiana: la giovane regista Alice Rohrwacher, sorella della più nota attrice Alba (nel cast del film), al suo secondo film è ancora sconosciuta alle nostre platee; il primo film, Corpo celeste, lo si vide a Cannes nella sezione Quinzaine des realisateurs e poi nei cinema passò inosservato. Qui il suo indubbio talento è stato riconosciuto, anche se certo Le meraviglie – storia di una famiglia con 4 figlie che vivono in un contesto agreste, non idilliaco, isolato e un po’ fuori al mondo, che irromperà con la sua modernità – non è certo facile; il Grand Prix (vinto in un recente passato per due volte da Matteo Garrone, con Gomorra e Reality) la pone sul secondo gradino del podio, riconoscimento prestigioso che aiuterà un po’ il film, che nei primi giorni (è uscito giovedì) faticava parecchio nonostante il battage festivaliero. Ora sicuramente si avrà modo di apprezzarlo in sala, ma prevediamo in pari misura entusiasmo per uno stile sicuramente personale e perplessità per un’opera non semplice, che ha diviso gli stessi critici italiani. Ma anche che segnala un altro talento italiano nel cinema la cui affermazione non può che far piacere.
Gli altri premi sono andati agli attori Julianne Moore (per Maps to the Stars di David Cronenberg), brava ma forse la Julette Binoche di Sils Maria di Olivier Assayas aveva impressionato di più), e Timothy Spall (per Mr. Turner di Mike Leigh, uno dei film più amati quest’anno a Cannes), oggettivamente il miglior interprete del festival. Meritato anche il premio per la miglior regia (dopo lo scandaloso verdetto un anno fa, con un terribile regista messicano premiato quando c’era la strepitosa regia di Paolo Sorrentino in La grande bellezza, nettamente superiore) a Bennett Miller che dopo gli ottimi Capote e L’arte di vincere – Moneyball si è confermato con Foxcatcher.
Magari più controverso il riconoscimento per la miglior sceneggiatura al russo Leviathan del regista Andrey Zvyagintsev (vinse oltre dieci anni fa a Venezia con l’opera prima Il ritorno), potente tragedia con tratti grotteschi che ha però più di una slabbratura e un inizio molto contorto, e quindi non ha certo nel testo la sua qualità migliore. Infine, la strana coppia nel premioex aequo del Gran Prix: al più anziano e al più giovane. Ovvero all’83enne Jean-Luc Godard, che nemmeno si è fatto vedere al festival e che da anni si diverte con provocazioni che di cinematografico hanno solo alcuni sprazzi (e non fa differenza il brevissimo ma estenuante Adieu au langage), e il 25enne canadese Xavier Dolan (già al quinto film!), un talento già evidente nei suoi altri film (il precedente era a settembre a Venezia) che con Mommy disegna un agitatissimo e impressionante rapporto tra una madre sopra le righe e un figlio che entra ed esce da ospedali psichiatrici.
Ma la rassegna francese aveva in concorso anche altri titoli degni di premio. Di alcuni tutti erano convinti che avrebbero portato a casa qualcosa, o perché tipici film da festival (l’ipnotico, anche troppo, Stille the Water della giapponese Naomi Kawase, e Timbuktu di Abderrahmane Sissako, regista africano che ci ha raccontato un Mali dilaniato da guerra civile e integralismo islamico), o per meriti oggettivi: perché se un film è forse il più amato in assoluto qualche ragione per premiarlo rimane, anche se chi l’ha realizzato ha già vinto due volte a Cannes e ha preso tanti altri premi in passato… Insomma, c’è sempre una buona ragione per premiare i grandi Jean-Pierre e Luc Dardenne: il loro Deux jours, une nuit con una grande Marion Cotillard (anche per lei ci poteva stare il premio come miglior attrice), racconta una parabola non solo sull’attuale crisi che investe il mondo del lavoro, ma sulla decisione che deve prendere ognuno, se farsi schiacciare da una determinata situazione o reagire rispettando se stessi e la propria dignità.
Infine, due film che quando usciranno in Italia saranno, a nostro parere, ricompensati dalla scarsa attenzione di Cannes: The Homesman di Tommy Lee Jones, western morale molto applaudito ma senza premi, e The Search di Michela Hazanavicius: il regista di The Artist, da uno spunto di un vecchio film di Fred Zinemann, racconta senza sconti la sporca guerra in Cecenia e l’odissea di un bambino profugo, con energia e capacità di commuovere. I critici (soprattutto italiani, ma non solo), lo hanno maltrattato per troppo uso di sentimento. Secondo noi, hanno preso un abbaglio tipico dei festival, in cui si predilige l’oscuro e l’ostico e mai quello che si può consigliare a un amico a casa. Noi, The Search, lo consigliamo.