Una canzone non è solo “due note e un ritornello” (citando Paolo Conte…), ma anche persone, fatti, ricordi, avvenimenti casuali, incontri imprevisti.
Una canzone non è mai “solo” un evento artistico o un oggetto da consumare, ma anche un pezzo di storia da raccontare.
Questa rubrica prova a mettere insieme quei cocci del destino che han portato alla nascita, al successo o all’oblio una melodia. Senza enfasi, ma – spesso – con quella stessa commozione partecipata che si avverte quando si leggono certi libri di storia.
La black music ha da sempre fatto i conti con l’anima religiosa. A volte profetica, a volte visionaria, a volte dolente, ma sempre presente. Merito delle radici blues e spiritual, si dirà. Certo, ma questo non guasta mai. A volte questa anima religiosa emerge in modo inatteso dal bailamme del funk e del rhytm’n’blues: è il caso di The Cross, inserita da Prince nel 1987 nel suo album sullo “stato di salute del pianeta”, “Sign ‘o’ The Times”, uno dei dischi fondamentali della storia della pop music, addirittura considerato da qualcuno (il sondaggio di Time Out del 1989) il più importante album di tutti i tempi.
Lasciando ad altri i sondaggi e le classifiche, c’è da dire che se in molte canzoni di musica nera è l’afflato biblico e salvifico a serpeggiare tra gli accordi, in questo titolo del musicista di Minneapolis – al contrario – i piedi sono molto ben piantati per terra. All’epoca della pubblicazione di questo pezzo siamo nella seconda metà degli anni Ottanta. Gli Usa e con loro mezza Europa (Italia compresa) stanno godendo uno dei decenni più sfrenati e goderecci. Sono gli anni che porteranno allo sgretolamento del blocco comunista (nel 1989 cade il muro di Berlino). Gli Stati Uniti vivono una doppia identità: da un alto il presidente Ronald Reagan simboleggia un’epoca di sfacciatissimo benessere, dall’altro aumenta in modo impressionante la percentuale di americani che vive ampiamente sotto la soglia della povertà. Come si dice spesso: ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri. In questa situazione Prince, al secolo Roger Nelson (figlio d’arte: il padre pianista jazz e la madre cantante), che fino a quel momento era asceso nell’empireo del pop-rock per le sue qualità musicali, per i suoi eccessi di narcisismo per il numero delle amanti che gli vengono attribuite (decine, centinaia, alcune più vere di altre….), lascia a bocca aperta il mondo patinato della musica e delle cronache tirando fuori dal cappello una maturità umana e musicale inattesa. Quando esce “Sign’o’The times” con le sue 16 canzoni (è un doppio album), lascia tutti di stucco, un po’ come era accaduto nel ‘76 con “Songs in the key of life” di Stevie Wonder: un disco di musica black capace di spaziare dal rock al folk, dal funky più grezzo alla ballad, un disco che sulla falsariga della sensibilità di Marvin Gaye e di Curtis Mayfield, cerca di descrivere una realtà ambigua, di luci ed ombre. Prince in tutto questo suo disco fa il cronista, si occupa di cantare storture e deviazioni della nostra cara civiltà, abnormità degli amori e dei dolori, sotterfugi e vie d’uscita (spesso molto “carnali”…). Ma in The Cross si veste di altri panni: è un giornalista che oltre a narrare, profetizza: nelle ingiustizie, nelle povertà, nelle disperazioni, si può ancora attendere qualcosa. Da chi può venire la speranza, la giustizia, la risposta se tutto sembra essere “giorno buio, notte tempestosa, nessun amore, nessuna speranza visibile”. La risposta è attendere e sperare: Lui sta arrivando. Lui, l’uomo della Croce. E – tra le righe – spunta una citazione biblica, nella strofa finale: “Non piangere” che eccheggia il “donna non piangere” detto alla vedova di Naim da Gesù Cristo (Lc, 8, 13): “Ghetti alla nostra sinistra, Fiori a destra, Ci sarà pane per tutti noi, Se solo riusciamo a portare la croce/ Noi abbiamo tutti dei problemi, Alcuni grandi, altri sono piccoli, Presto tutti i nostri problemi, Saranno portati presso la croce/ Giorno buio, notte tempestosa, Nessun amore, nessuna speranza visibile, Non piangere, lui sta arrivando, Non morire senza aver prima conosciuto la croce”.
Nessun commento, nessuna morale, nessun richiamo – così abituale nella cultura americana, sia dei bianchi che dei neri – allo sforzo di volontà, a quel “do it!” che serpeggia tra tutte le classi e tutte le culture da New York a Los Angeles. Prince non fa la morale (non è il tipo, viste le bizzarrie della sua vita personale e anche le prove più dure: più tardi, nel ’96 avrà un figlio, Gregory, morto poco dopo la nascita), pesta pesantemente sui fatti così come la canzone – soprattutto nel crescendo della sua seconda parte – pesta forte sulla chitarra e sulla sezione ritmica. Hai da confrontarti con la Croce, suggerisce Prince, tutto qui. In fin dei conti, lo ricordava Salvador Dalì: tutti gli artisti, prima o poi, si sono confrontati con quel simbolo, icona ineliminabile della vita quotidiana.