“Après moi, le déluge”. Dopo di me, il diluvio. Questa celebre frase, attribuita a Luigi XV, mi è venuta alla mente nel sentire le ultime esternazioni di Silvio Berlusconi, in entrambi i significati che le sono stati attribuiti: o un profetico riferimento alla caduta della monarchia con la Rivoluzione francese, o l’affermazione di un completo disinteresse per ciò che sarebbe venuto dopo di lui.
Alcune premesse. È sembrata ingenua, fino alla banalità, la asserita sorpresa per la qualità politica della Corte costituzionale, essendo insita nella sua stessa natura, oltre che nei meccanismi di nomina, già ben noti al primo ministro. È così in tutte le democrazie occidentali, si pensi alla Corte suprema degli Stati Uniti, ed è ovvio che sia così, se si esce dalla vuota retorica della “sacralità” della Costituzione e la si prende per quello che è: una legge, pur fondamentale, votata da parti politiche per scopi politici, per quanto alti, e come ogni legge interpretabile e modificabile nel tempo. La nostra, in particolare, è fortemente politicizzata, rappresentando il punto di compromesso tra correnti di pensiero, tradizioni culturali e ideologie politiche ben diverse tra loro, ma unite nel desiderio di superare vent’anni di dittatura e una guerra civile.
Pensare che chi deve esprimere pareri di costituzionalità debba essere solo un tecnico e non tener conto di indirizzi politici, è pura dabbenaggine, o strumentalismo. D’altro canto, alcuni fatti non del tutto trasparenti, come l’incontro “privato” con un paio di giudici costituzionali, evidentemente ritenuti vicini alla propria parte politica, o il presunto incontro con il Presidente della Repubblica per chiedere un intervento sulla Corte, negano le premesse stesse dell’indignazione di Berlusconi. E, comunque, rimangono le accuse del premier a Napolitano per non essere intervenuto sui giudici costituzionali.
Per chiudere, la stessa avvocatura dello Stato aveva molto realisticamente segnalato alla Corte le possibili implicazioni politiche di un rigetto del cosiddetto lodo Alfano, caricando così la sentenza, qualunque essa fosse, di un significato politico.
La reazione scomposta di Berlusconi rimane così inspiegabile, perché uno smacco politico non giustifica un comportamento che rimanda, più che a uno statista, a personaggi alla Di Pietro o alla Grillo. Se vogliamo essere generosi, alla girotondina. Lo scatto di nervi può spiegare, non giustificare, la caduta di stile decisamente becera nei confronti della Bindi, come se avessimo bisogno di altri martiri fasulli oltre Santoro e compagnia. Rimane tuttavia inspiegabile l’attacco suicida al Capo dello Stato.
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Napolitano ha forse ricevuto lo schiaffo più forte in questa vicenda e una mano tesa da parte di Berlusconi, cui si sarebbero senza dubbio aggiunti i due presidenti delle Camere, essendo il Parlamento l’altro soggetto “preso in giro” dalla sentenza, avrebbe costituito un fronte comune di tutte le alte cariche istituzionali nei confronti del giudizio, quantomeno discutibile tecnicamente, della Corte costituzionale.
Berlusconi ha preferito invece partire lancia in resta contro tutti, dando l’impressione che non una legge dello Stato, ma una “sua” legge per suoi scopi personali fosse stata bocciata. Come spiegare altrimenti il continuo, stentoreo proclamare di essere stato eletto dagli italiani? Nessuno, neppure l’opposizione seria, ha messo in dubbio la sua legittimità, e semmai di elezioni anticipate si è parlato nella maggioranza, o ancora da Di Pietro, essendo il Pd terrorizzato dalla eventualità.
In questo modo, inoltre, dimenticando che siamo ancora in una democrazia parlamentare e non presidenziale, ha dato fiato a chi lo accusa di eversione, che tale sarebbe il contrapporre il voto degli elettori alle cariche istituzionali previste dalla Costituzione, anche se non elette direttamente. Dimenticando altresì, che lui è stato nominato capo del governo dal Parlamento e che se vi fosse un “ribaltone”, come già ci fu in passato, il governo cadrebbe comunque e le sue ragioni le dovrebbe far valere in una nuova campagna elettorale.
Ecco perché mi è venuta in mente la frase di Luigi XV. Portando al calor bianco lo scontro istituzionale dà ragione al primo significato attribuito alla frase; non tenendo conto che il suo partito dovrà sopravvivergli, sembra seguirne il secondo. Da semplice cittadino suo elettore un po’ frastornato, vorrei ricordargli sommessamente che l’Italia non ha bisogno di capipopolo – ne abbiamo avuti a iosa da Masianello a Mussolini e ora ci dobbiamo sorbire Di Pietro – ma di buoni governanti. Ed è per questo che la maggioranza degli italiani lo ha votato, e non solo perché non ci sono alternative. Queste finiscono per essere trovate e di solito sono peggiori.