Il verbale di fine ispezione della Vigilanza Bankitalia alla Banca Popolare di Milano non aggiunge molto alla sostanza di una situazione di stallo, instabile e insostenibile. La raccomandazione a riaprire il dossier della trasformazione in Spa – clamorosamente bocciato dai soci poche settimane fa – era scontata, dovuta da parte del Governatore Ignazio Visco: il quale, fra l’altro, non ha neppure affondato con una di quelle lettere d’accompagnamento cui Via Nazionale ricorre quando la “moral suasion” dev’essere particolarmente ruvida. E non c’è dubbio che il caso Bpm sia grave e vada risolto: e lo scriviamo dopo aver ripetutamente criticato, da questa finestrella, alcune modalità del pressing di Bankitalia perché a Piazza Meda le cose cambiassero.
Abbiamo anche difeso – fino all’ultima assemblea – i soci (cioè i dipendenti soci, i pensionati e dei familiari) a vedersi rispettare nei propri diritti di legge e statutari. Però ai diritti, sia nell’ambito pubblico che in quello privato, corrispondono responsabilità, formali e sostanziali: e queste – dallo storico corpo sociale della Popolare di Milano – continuano a essere ignorate. Anzi, in Piazza Meda si respira aria di ritorno a un “passato che non passa perché non deve passare”, fino alla possibile ricostituzione di un “soviet” di dipendenti-soci.
La ricetta imposta a fine 2011 dal governatore uscente Mario Draghi e dall’allora vicedirettore generale Anna Maria Tarantola (oggi entrambi fuori da Palazzo Koch), è vero, non ha funzionato. Ha mescolato “governance” duale e private equity internazionale: nella prima la stessa Bankitalia non credeva più già allora; il secondo era – e si è rivelato – un “tool” pensato alla fine in termini ideologici e mediatici. Nel primo caso, a conti fatti, la sospensione “autoritativa” dei diritti di voto ai dipendenti soci sarebbe stata più diretta ed efficace, addirittura più interna alla tradizione cooperativa italiana, anche se certamente meno estetica del ricorso a uno dei modelli mercatisti contenuti nel “Testo Draghi” del ‘98, per separare gli interessi della proprietà e quelli dell’impresa. Riguardo all’aspetto degli azionisti di riferimento, neppure un finanziere dall’illustre cognome milanese come Andrea Bonomi ha potuto allontanare dalla sua azione il sospetto di lavorare a Bpm come a un altro dei “deal” della sua InvestIndustrial e dei suoi ricchi partner globali.
E oggi il ruolo di Bonomi – che avrebbe dovuto essere e in parte è effettivamente stato – di traino della banca verso nuovi equilibri, si sta oggettivamente trasformando in freno: perché nel cambiamento dovrebbe rimetterci la sua way-out, lui che in fondo è stato chiamato da tutti? (Bpm è un micro-caso italiano di quanto è accaduto su scala globale: con le vigilanze finanziarie ridotte a imporre scolasticamente le regole del mercato, migliore dei mondi possibili e pretesa medicina unica per crisi grandi e piccole. Attenzione: Basilea 3 è nata così e l’Unione bancaria europea non è ancora chiaro come nascerà).
Cambiare la Popolare di Milano, in ogni caso, non voleva dire – e non vuol dire oggi – distruggerla o punirla: però vuol dire cambiarla. E la Bpm va cambiata: dal “caso Schlesinger” al “caso Ponzellini” due incidenti gravi in vent’anni sono troppi; a maggior ragione se la banca non è un carrozzone pubblico del Sud ma una buona Popolare del Nord, al centro di un mercato importante. E il fatto che la Bpm si sia salvata in entrambi i casi sulle gambe del suo bilancio è un’aggravante, non un’attenuante: in un’Azienda-Paese le risorse private non sono meno importanti di quelle pubbliche (in Italia sono e restano invece le vere risorse).
I dipendenti-soci della Bpm – non ci stanchiamo di ripeterlo – hanno una sola chance di far valere i propri diritti, meritandoseli: promuovere con il loro istituto un’aggregazione, di cui probabilmente ci sarebbe la necessità (per Bpm, per le Popolari, per l’intero sistema), anche al netto di un caso specifico. Alcune ipotesi (la Popolare dell’Emilia Romagna) sono già state esplorate in passato, invano. Altre sono diventate d’attualità sotto i colpi della crisi finanziaria globale e della recessione italiana: Ubi e Banco Popolare sono candidate naturali a un’integrazione con la Milano. Ma se i “mohicani” di Piazza Meda dovessero trincerarsi, Visco sarebbe oggi autorizzato a passi più forti: perché non far confluire la Bpm nel grande riassetto Montepaschi, diretto da Alessandro Profumo e da quel Fabrizio Viola che in Piazza Meda è stato general manager?
E visto che stiamo facendo nomi, facciamone altri: senza nessuna e inopportuna mancanza di riguardo per l’attuale capo-azienda, Piero Montani, chiamato da Bonomi. A Bpm serve un presidente autorevole, esperto e rispettato, che sia garante presso molti indirizzi. Roberto Mazzotta ha già presieduto la Popolare e voleva un’aggregazione. Il nome di Giulio Sapelli – economista molto operativo, già consigliere di Eni e UniCredit Banca d’Impresa – era circolato già in primavera. Graziano Tarantini, già vicepresidente Bpm e tuttora presidente di banca Akros, oltre che del consiglio di gestione di A2A, è oggi una delle figure di alta governance col background più ampio in Lombardia. Donato Masciandaro – direttore del Centro Paolo Baffi della Bocconi – è forse l’economista italiano che ha studiato di più la complessità imprenditoriale delle Popolari: nei suoi commenti su Il Sole 24 Ore non ha mai fatto loro sconti sulle derive e su alcune obsolescenze, ma ne ha sempre sottolineato la forza del modello all’interno di un’economia vitale. Aggiungiamo Fabio Innocenzi: cresciuto alla scuola di Profumo in UniCredit, ha guidato poi da top manager due complesse integrazioni fra Popolari di prima fascia (fra Verona e Novara e poi con Lodi); i magistrati ne hanno riconosciuto negli ultimi giorni la totale innocenza nel dissesto di Banca Italease, un dossier di finanza criminale cui il vertice del Banco Popolare era estraneo.
Se i dipendenti-soci della Milano hanno altri nomi – i loro – li tirino fuori: ma subito. Il “compito a casa” tanto non cambia. Al massimo possono costringere la Banca d’Italia a un “bombardamento a tappeto” sull’intero settore del credito cooperativo: che in Italia è davvero “troppo grande per fallire”. E merita una vigilanza diversa da quella del comitato di New York della Fed nel 2008.