Terza liceo scientifico, prima lezione dell’anno, storia e filosofia: io sono nuovo per loro, loro nuovi per me. Prima chiacchierata, per conoscersi, per farsi un’idea di quel che incontreranno quest’anno. La filosofia li incuriosisce, li attira questa parola importante, un po’ misteriosa, l’ignoto che ci intravedono dietro. Poi si passa alla storia, e il crollo è verticale, inappellabile: “noo, prof, la storia noo, cheppalle!” Chiedi, indaghi, sondi, le risposte sono le medesime, immutabili un anno con l’altro: è un vano esercizio di memoria, date fatti nomi – quando va bene, se no astratte categorie senza carne – da appiccicarsi in testa per l’interrogazione e scordare appena possibile.
Non è colpa loro, e in fondo neanche dei loro insegnanti: la storia in Italia è una cenerentola, fino a pochi anni fa non esisteva neppure la facoltà, la insegnano laureati in lettere o in filosofia che il più delle volte l’hanno studiata ben poco, sovente non la amano, ripetono loro quel che i libri offrono. Già, i libri. I manuali scolastici di storia sono un concentrato di storicismo hegeliano: concetti, categorie, astrazioni, che si generano l’uno dall’altra secondo una geometrica progressione ideologica che ingloba tutto ma esclude l’unica cosa interessante, il soggetto: gli uomini, le donne che hanno lavorato, lottato, amato, combattuto, costruito, decorato, sofferto, rischiato, tradito, comandato e obbedito, adorato e bestemmiato, cercando di dare uno straccio di senso al loro effimero ed esaltante passaggio sulla terra. Allora cerchi di combattere, di leggere e far leggere altre pagine, altri testi, da cui l’umano sbuchi più vivo. Ma combatti sempre in salita, il Libro di Testo, totem e tabù della scuola italiana, rema contro. Tu ti fai in quattro e loro ti ripetono quel che c’è scritto lì dentro, dogma sovrano e indiscutibile. E allora cominci a pensare che sarebbe bello scrivere un libro, un altro, diverso.
E allora, se capita l’occasione, se per una serie di circostanze ti imbatti in un editore che vuol fare un libro nuovo, che ha voglia di rischiare su un testo che parli un’altra lingua, come tirarsi indietro? E allora cominci, ti incontri, discuti, trovi un amico per condividere l’impresa, scopri che le obiezioni che hai tu sono quelle di tanti, forse è arrivato il momento di dire che il re è nudo, che si può si può immaginare di raccontare la storia di uomini e non di astrazioni, l’avventura di Alessandro e quella di Cesare, il sudore degli operai egiziani costruttori di piramidi e quello dei monaci benedettini bonificatori di paludi, il brivido dell’amore di Eloisa per Abelardo e il dramma dei cavalieri franchi e turchi che combattono nelle sabbie dei deserti di Palestina, la perizia dei vasai di Corinto e quella dei maestri vetrai che vestono di luce le cattedrali di Francia.
E allora ti metti all’opera. Poco importa se sei inadeguato. Se devi studiare come un matto, perché quel che credevi di sapere è poco e niente. Se devi scrivere, riscrivere, limare, togliere, aggiungere, aggiustare una miriade di volte. Se non c’è più né sabato né domenica, né feste comandate (perché intanto il resto della vita va avanti), se la sveglia suona sempre più presto e il coprifuoco cala sempre più tardi, se gli amici ormai ti chiamano “il recluso” e scuoton la testa (per fortuna ci sono la moglie, e i figli, che ti sostengono pazienti). Intanto l’opera cresce, prende forma, sembra perfino non male. Alla fine qualcuno l’adotta pure. Alla fine, qualcuno ti ferma, ti dice che i suoi ragazzi lo studiano, lo leggono volentieri, qualcuno – degli studenti – si spinge a dire che sembra un libro di avventura, che non credeva che la storia potesse essere così appassionante. Valeva la pena farlo.
(Roberto Persico)