La Russia di Putin ha definitivamente chiuso la vicenda del gasdotto South Stream con la decisione del socio di riferimento, la statale Gazprom, di riacquistare le quote di Eni (20%), della francese Edf e di una consociata della tedesca Basf (entrambe al 15%). Una decisione che può essere commentata almeno sotto tre profili.
Un primo aspetto è dato dalle conseguenze sulle società direttamente coinvolte nel progetto, come le italiane Eni e Saipem, che aveva vinto lavori per 2,4 miliardi di euro. Per l’Eni non sembrano esservi particolari problemi, dato che rientrerà dell’intero investimento azionario, compresi gli interessi, per una cifra tra i 300 e i 400 milioni di euro. Il vertice Eni è sembrato negli ultimi tempi abbastanza freddo nei confronti del progetto, forse in conseguenza della negativa posizione Ue, apparentemente condivisa dal nostro governo, o per i costi del gasdotto ritenuti non più convenienti, anche per le dimensioni un po’ eccessive del progetto, con una capacità pari a più di un terzo delle attuali importazioni europee di gas russo. Di più, in una situazione di stagnazione della domanda e di calo dei prezzi. La domanda è, tuttavia, quanto questo influenza le possibilità per Eni di sviluppo in Russia.
Più serio il problema per Saipem, perché la perdita di queste importanti commesse avviene in un anno che si presenta già non facile. A quanto pare, il contratto prevede forti penali che possono limitare i danni finanziari, ma che difficilmente riusciranno a ripagare quelli economici e le perdite derivanti dal fermo dei mezzi navali, non facili da reimpiegare a breve in questa situazione di crisi generalizzata. Una conseguenza positiva per molti, compreso chi scrive, è che il vertice Eni è stato costretto a sospendere la messa in vendita della sua quota in Saipem e anche il governo dovrà rivedere la decisione di mettere sul mercato ulteriori quote di Eni, come già ha accennato il premier Renzi.
Sotto il profilo energetico, non dovrebbero esserci rilevanti conseguenze sulle forniture nel breve termine, a meno di forti sommovimenti in altre aree di produzione, come in Nord Africa. D’altra parte, South Stream sarebbe stato produttivo non prima di tre/quattro anni, come l’altro gasdotto sponsorizzato dal nostro governo, dall’Ue e dagli Usa: il Tap, che dovrebbe portare in Europa il gas azero. Nonostante i loro contrasti, Ucraina e Russia sono costrette a trovare un accordo, la prima per non rimanere al freddo, la seconda per poter esportare il suo gas in Europa. Infatti, si è raggiunto un accordo che copre le forniture fino a marzo.
L’Ue sta anche spingendo per una maggiore integrazione dei gasdotti all’interno del suo territorio, in particolare quelli dal Nord al Sud, per rendere più efficiente la distribuzione del gas, e la costruzione di una serie di rigassificatori che permettano di utilizzare maggiormente il gas liquido importato via nave; da qui l’interesse degli Usa, che pensano di poter esportare in futuro il loro gas di scisto.
Il terzo aspetto è quello geopolitico. Come già scritto su queste pagine, per il petrolio è in corso una vera e propria guerra dei prezzi, imposta dall’Arabia Saudita all’Opec, con obiettivo tutti i possibili concorrenti dei sauditi, a partire da Usa e Russia. Per il gas, la guerra è tra Ue, sostenuta e spinta dagli Usa, e Russia, essendo la motivazione del conflitto la questione ucraina. Le difficili condizioni del mercato degli idrocarburi e le sanzioni stanno mettendo a repentaglio l’economia russa e Putin sta rivolgendosi sempre più verso l’Asia, in particolare Cina e India.
La Cina rappresenta senza dubbio un mercato alternativo all’Europa, ma la costruzione di oleodotti e gasdotti verso questo immenso Paese è costosa e richiede tempo. Inoltre, i cinesi sono molto abili nello sfruttare le situazioni e stanno “tirando” su prezzi già molto bassi e al di sotto del punto di pareggio per le finanze pubbliche russe. Nei programmi di espansione russa in India sono compresi anche contratti per una decina di centrali nucleari, in contrasto con le linee guida dello sviluppo in Europa, improntate a un progressivo abbandono di questa fonte energetica.
A Occidente, Putin ha aperto un altro fronte, quello turco, e durante la sua recente visita, oltre che programmi di collaborazione nel nucleare, ha firmato il preliminare per un gasdotto che, passando sotto il Mar Nero e affiancando l’esistente Blue Stream, porterebbe il gas russo in Turchia. Questo “Turkish Stream”, chiara sostituzione di South Stream, utilizzerebbe quanto i russi hanno già fatto nel loro territorio, collegandolo non più alla Bulgaria ma alla Turchia. Anche questo progetto verrebbe gestito da Gazprom e le quote ricomprate nel South Stream Transport Bv potrebbero essere messe a disposizione di nuovi soci, perché la situazione economica della Russia rende difficile una realizzazione autonoma del progetto, che rimane comunque problematica.
Non sembra, comunque, probabile un interesse da parte di Eni, ma per Saipem potrebbe essere interessante chiedere il trasferimento dei contratti, invece delle penali, dato che i due progetti sembrano in buona parte assimilabili.
In Turchia c’è chi teme che simili accordi rendano il Paese troppo legato alla Russia e ritiene più vantaggioso per il Paese essere punto di transito di gas e petrolio proveniente da diverse altre aree, come Azerbaigian e Turkmenistan. Anche da un punto di vista politico, secondo alcuni, la Turchia dovrebbe mantenere un atteggiamento bilanciato tra Ue e Russia, mentre accordi come quelli firmati con Putin sembrano spostare l’asse troppo verso Mosca.
Nella sua visita, peraltro, Putin non ha nascosto i disaccordi in politica internazionale con la Turchia, in particolare sul problema siriano e sull’annessione della Crimea. D’altro canto, Erdogan ha risposto a muso duro alle critiche europee sui recenti arresti di giornalisti e oppositori, dicendo che la Turchia non ha alcun bisogno dell’Ue.
La situazione è decisamente in movimento, soprattutto se si tiene conto che le divergenze con Mosca non sono insuperabili. Dopo l’annessione di fatto di una parte di Cipro, per la Turchia è difficile invocare il diritto internazionale per la Crimea, né la protezione della minoranza tartara giustifica una rottura con la Russia. Per quanto riguarda la Siria, sarà bene ricordare che Erdogan era un tempo buon amico di Assad e la situazione che si sta delineando nell’area potrebbe rinverdire tale amicizia, magari in funzione antisaudita.
E l’Europa? Come le stelle di Cronin sta a guardare.