Il dibattito sulla nuova normativa contenuta nel Collegato Lavoro (Legge 4.11.2010 n. 183) si è ormai spostato dal piano politico a quello giudiziario e approda ora davanti alla Corte Costituzionale, chiamata a pronunziarsi sulla legittimità di una delle norme maggiormente controverse: quella concernente la misura del risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente assunto a termine.
Con ordinanza dello scorso 28 gennaio 2011, la Corte di Cassazione ha, infatti, sollevato alcune questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5 e 6, del Collegato Lavoro, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 della Costituzione.
La norma contestata prevede, in particolare, che, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (il limite massimo di 12 mensilità è ridotto alla metà in presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie).
Prima che entrassero in vigore le nuove norme, il lavoratore assunto illegittimamente a termine aveva la possibilità di agire in giudizio per ottenere il ripristino del rapporto di lavoro e il risarcimento del danno secondo le regole generali sull’inadempimento delle obbligazioni contrattuali. In pratica, il lavoratore poteva ottenere, a titolo di risarcimento del danno, un importo corrispondente alle retribuzioni perdute per effetto della scadenza del termine illegittimamente apposto (detratto quanto eventualmente percepito dal lavoratore per aver eseguito un altro lavoro in posizione di subordinazione o di autonomia), a partire dal momento in cui il lavoratore avesse posto a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative.
Trattandosi di azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, e quindi di azione imprescrittibile, il lavoratore poteva prolungare sine die il tempo dell’azione di nullità e per dieci anni quello dell’azione risarcitoria. Tutto ciò poteva dar luogo a esborsi di misura non prevedibile e perciò a incertezza sui bilanci preventivi delle aziende, che si traducevano in un grave pregiudizio patrimoniale.
A questa situazione di incertezza ha voluto porre rimedio il Collegato Lavoro, prevedendo un termine di decadenza per l’impugnazione del contratto a termine e unificando il criterio di liquidazione del danno dovuto ai lavoratori.
Proprio in considerazione delle finalità perseguite dal legislatore, l’ordinanza della Cassazione rileva anzitutto che non è condivisibile la tesi, proposta da una parte della dottrina, secondo cui l’indennità prevista dall’art. 32, commi 5 e 6, del Collegato Lavoro dovrebbe aggiungersi al risarcimento del danno sopportato dal lavoratore e da liquidare secondo le regole di diritto comune. Anche l’espressione “omnicomprensiva”, adoperata dal legislatore, acquista significato solo escludendo qualsiasi altro credito del lavoratore, indennitario o risarcitorio.
La Cassazione rileva ulteriormente che la liquidazione di un’indennità contenuta in poche mensilità retributive non sembra contrastare con l’art. 3, primo comma, Cost. a causa del trattamento sfavorevole riservato al lavoratore precario, unico contraente spogliato della pienezza dei rimedi previsti dalla disciplina generale dei contratti; e non contrasta neppure con l’art. 36, primo comma, Cost., avendo per oggetto un’indennità, sia pure misurata sull’ammontare della retribuzione, e non una retribuzione da corrispondere per il lavoro effettivamente prestato.
Per contro, la Cassazione ha ritenuto non manifestamente infondato il dubbio di contrasto fra i commi 5 e 6 dell’art. 32 l. n. 183/2010 e i principi di ragionevolezza nonché di effettività del rimedio giurisdizionale, espressi negli artt. 3, secondo comma, 24 e 111 Cost. e il diritto al lavoro riconosciuto a tutti i cittadini dall’art. 4 Cost.
A giudizio della Corte, “la liquidazione di un’indennità eventualmente sproporzionata per difetto rispetto all’ammontare del danno può indurre il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento, eventualmente tentando di prolungare il processo oppure sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna, non suscettibile di realizzazione in forma specifica. Né verrebbe risarcito il danno derivante da una impossibilità della prestazione lavorativa, causata dal rifiuto del datore”; il che “vanifica il diritto del cittadino al lavoro (art. 4 Cost.) e nuoce all’effettività della tutela giurisdizionale, con danno che aumenta con la durata del processo”.
Non è questa la sede per soffermarsi sulle valutazioni (assai discutibili) della Corte. È il caso piuttosto di segnalare che, a seguito della questione di legittimità sollevata dalla Cassazione, molti processi in corso sono stati già sospesi dai giudici di merito (e molti altri processi saranno sospesi nei prossimi mesi) in attesa del pronunciamento della Corte Costituzionale. E il conto sarà pagato dall’una o dall’altra delle parti in causa qualora, all’esito del giudizio in corso, il giudice accertasse la illegittimità del termine (come spesso accade).
Perché delle due l’una: se le questioni di legittimità sollevate dalla Cassazione saranno respinte dalla Corte Costituzionale, la maggior durata del processo si ritorcerà contro il lavoratore, il quale potrà contare soltanto sulla indennità risarcitoria prevista dal Collegato Lavoro e dovrà attendere l’esito favorevole della causa per la conversione del contratto e il ripristino del rapporto di lavoro; se invece le questioni di legittimità sollevate dalla Cassazione saranno accolte dalla Corte Costituzionale, la maggior durata del processo si ritorcerà contro le aziende, le quali saranno tenute a corrispondere ai lavoratori il danno commisurato alle retribuzioni perdute fino al momento della effettiva riammissione in servizio.
Giustizia sarà fatta. Ma a caro prezzo.