I leader sindacali sono sempre più delusi del Governo Monti. Tutti, più o meno, avevano sponsorizzato un esecutivo di alto profilo istituzionale, nella speranza di ripetere l’esperienza compiuta con il Governo Dini, quando Cgil, Cisl e Uil, protagonisti della sconfitta di Silvio Berlusconi nel 1994, condizionarono le scelte politiche della compagine governativa, anche allora composta da “tecnici”, soprattutto in tema di pensioni, divenendo, in pratica, il principale punto di riferimento. Si arrivò persino all’oltraggioso paradosso per cui il Parlamento attese di conoscere l’esito del referendum promosso dai sindacati prima di approvare in via definitiva quella che divenne poi la legge n. 335 del 1995 (ovvero la riforma Dini-Treu).
Adesso il Governo dei nuovi tecnici non si cura di loro. Li ha sentiti – senza prenderli troppo sul serio – in occasione del decreto Salva-Italia, incassando uno scioperino proclamato “un po’ per celia, un po’ per non morir”. Monti, nella conferenza stampa di fine anno, ha promesso che nella fase 2, specie per quanto riguarda la riforma del mercato del lavoro, avvierà un confronto con le parti sociali, fermo restando che le decisioni dovranno essere assunte prima del vertice europeo del 23 gennaio.
Così il 1° gennaio i vertici confederali hanno esposto una singolare teoria (a cui hanno fatto da sponda i tg in mezzo alle notizie sulle vittime dei “botti” di Capodanno): è necessaria la concertazione, altrimenti vi sono timori di un’accesa conflittualità sociale. Siamo alle solite: quanti – a sentire l’inconsistenza delle loro proposte – sono un sintomo della malattia, continuano a improvvisarsi medici. In ogni caso il Governo – i media si sono scapicollati a dare notizia di una telefonata augurale di Monti ai leader sindacali – dovrà accettare il confronto, ma, alla fine, dovrà assumersi in prima persona le responsabilità che si è caricato sulle spalle da quando ha accettato il compito di curatore fallimentare dell’azienda Italia.
Nel frattempo, sarebbe utile e opportuno che Monti e i suoi ministri imprimessero una sterzata al modo in cui si viene prefigurando il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro. Diciamoci la verità. Di mezzo ci si è messa anche la stampa, ma si direbbe che il Governo abbia un solo problema: mediare tra le diverse posizioni in campo nel Pd e nei sindacati. La scelta cadrà sul “contratto unico” come lo ha proposto Tito Boeri (e quindi su di un ddl che lo prende a riferimento) oppure sul tanto sponsorizzato (dal suo autore innanzitutto) progetto Ichino? O forse, alla fine, prevarrà la componente parlamentare vicina alla Cgil, con Cesare Damiano e Marianna Madia alla Camera e Paolo Nerozzi al Senato?
Delle proposte di deputati del PdL nessuno parla, benché esistano taluni progetti di legge depositati da tempo, specie per quanto riguarda la revisione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Anche volendo non riconoscere ai parlamentari del centrodestra la medesima autorevolezza che viene attribuita – gratis et amore dei – a quelli di centrosinistra, si dovrà pur prender atto che il precedente Governo e il suo titolare del Lavoro, Maurizio Sacconi, hanno lasciato in eredità all’attuale un mosaico di norme in grado di affrontare sicuramente e forse anche di risolvere molti problemi.
Cominciamo dagli ammortizzatori sociali. Il “collegato lavoro” ovvero la legge n. 183 del 2010 (il provvedimento più importante in materia assunto dall’esecutivo precedente) contiene una norma di delega che racchiude i principi e le direttive per la riforma degli ammortizzatori sociali. Si tratta di un dispositivo assolutamente bipartisan perché consiste nel testo esatto di un articolo della legge n. 247 del 2007 (con cui il Governo Prodi recepì il protocollo sul welfare), a cui il ministro Sacconi si è limitato soltanto a prorogare i termini per l’esercizio della delega stessa.
Quanto al “contratto unico”, ipotizzato come l’avvio di un rapporto a tutela crescente, è appena il caso di ricordare che la medesima funzione può essere esercitata dal contratto di apprendistato, riformato sulla base di un avviso comune sottoscritto da tutte le parti sociali, inclusa la Cgil. Se poi si volesse, nel quadro dell’annunciata riforma della giustizia civile, prestare attenzione anche al tema della risoluzione delle controversie di lavoro, sarebbe bene non dimenticare che, sempre nel “collegato lavoro”, è prevista l’istituzione, per via contrattuale, di una procedura di conciliazione e di arbitrato secondo equità resa operativa dalla sottoscrizione, in un contesto di ampie garanzie di libertà e di volontarietà, di una clausola compromissoria individuale. Il periodo di tempo concesso al negoziato tra le parti (un anno) è già scaduto nella loro inerzia; per cui la legge prevede che spetti al ministro del Lavoro avviare un’opera di mediazione, prima di procedere in via sperimentale con proprio decreto, in caso di fallimento.
Vi sono poi altri aspetti inaccettabili di un dibattito troppo attento alla frontiera della sinistra delle forze che sostengono il Governo. Prima di tutto l’idea che si debbano “potare” i diversi rapporti di lavoro istituiti dalla legge Biagi. La lettera di intenti del Governo Berlusconi del 26 ottobre scorso affrontava il problema nel senso di prevedere «più stringenti condizioni nell’uso dei “contratti para-subordinati”, dato che tali contratti sono spesso utilizzati per lavoratori formalmente qualificati come indipendenti ma sostanzialmente impiegati in una posizione di lavoro subordinato». Il cammino è dunque tracciato. È un’aberrazione ideologica ritenere, invece, che i contratti flessibili (job on call, staff leasing, a termine, ecc.) non siano strumenti giuridici più idonei a regolare specifiche situazioni non riconducibili a modelli forzatamente standard, ma assurgano addirittura alla causa principale della precarietà.
Anche per quanto riguarda l’articolo 18 il precedente Governo ha assunto degli impegni con l’Ue che indicano il percorso da seguire, limitatamente a «una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato». A tal proposito è bene essere chiari a proposito di una questione cruciale, quasi pregiudiziale. Il Governo Monti non pensi di poter revisionare l’articolo 18 applicando la nuova disciplina solo ai futuri occupati. Così facendo si potranno forse blandire i sindacati, ma non si risolverà il dualismo del mercato del lavoro.
Se modifiche devono esserci (ed è indispensabile che ciò avvenga), le stesse devono valere per tutti. Guai se anche i supertecnici di Monti, poliglotti e cittadini del mondo, avessero imparato subito ad adeguarsi alle soluzioni all’italiana.
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