Difficile dire se si tratti di una battuta galeotta scappata sullo slancio dell’entusiasmo per una nuova stagione che si apre densa di speranze – e magari incoraggiata da qualche brindisi di troppo – o se invece sia qualcosa di molto più realistico, frutto di una precisa strategia industriale. Certo è – e ce ne siamo accorti molto bene negli ultimi mesi – che difficilmente quando Sergio Marchionne parla lo fa senza aver soppesato bene le parole o aver calcolato sapientemente l’”effetto” che le sue dichiarazioni possono portare con sé. Ecco perché la notizia ha in sé la capacità di infiammare i cuori degli appassionati.
Il numero uno del gruppo Fiat ha inaspettatamente aperto la porta ad un ritorno in pista – perché no, anche in Formula Uno – del glorioso marchio Alfa Romeo, magari addirittura in concorrenza con la stessa Ferrari. Inutile dire che si tratta di una prospettiva affascinante, eccitante, addirittura strabiliante per l’automobilismo sportivo italiano e per i molti appassionati che, nonostante gli anni di naftalina a cui è stato relegato da quando è entrato nell’orbita Fiat, non hanno dimenticato il DNA sportivo del Biscione e la leggendaria pagina di storia che esso rappresenta per l’Italia del volante. Fondata nel 1910 a Milano come Anonima Lombarda Fabbrica Automobili e diventata poi Alfa Romeo nel 1918 dopo l’acquisizione da parte di Nicola Romeo, l’Alfa si presentò in corsa per la prima volta nella primavera del 1911 quando Nino Franchini portò la 24HP sulle strade del Concorso di Regolarità di Modena, antesignano delle grandi gare stradali che segnarono l’automobilismo sportivo fino alla fine degli anni Cinquanta.
Quel giorno si aprì una pagina leggendaria e l’Alfa legò indissolubilmente la propria strategia aziendale alla partecipazione alle competizioni, sempre più popolari e seguite dal pubblico, per lanciare la propria produzione di serie e rafforzare così la sua presenza sul mercato. Fu una scelta felice, ripetuta qualche anno dopo anche dalla Ferrari.
Nel 1923 arrivò il primo grande successo con la Targa Florio vinta da Ugo Sivocci che precedette il compagno di squadra Antonio Ascari: fu allora che per la prima volta comparve sulle vetture il Quadrifoglio Verde diventato poi il simbolo del reparto corse Alfa. Quando ancora la Ferrari non era che un sogno nella testa di Enzo, l’Alfa Romeo difendeva la tecnica e la capacità italiana – spalleggiata dalla “gemella” Maserati, anch’essa oggi dispersa nei meandri dell’FCG Group – nelle epiche sfide con gli squadroni tedeschi Auto Union e Mercedes, con le francesi Bugatti, Talbot e Delahaye e le inglesi Bentley e Aston Martin, ovvero il meglio della tecnica costruttiva dell’epoca.
Negli anni Trenta, caratterizzati dall’estrema popolarità delle competizioni sport-prototipi seguite da folle oceaniche, l’Alfa grazie a leggendari piloti come Tazio Nuvolari, Giuseppe Campari, “Didi” Trossi e Ferdinando Minoia vinse sei edizioni consecutive della Targa Florio dal 1930 al 1935, tutte le Mille Miglia dal 1928 al 1938 fatta salva per l’edizione del ’31 che “sfuggì” ad opera della Mercedes e quattro 24 Ore di Le Mans dal 1931 al 1934 – oltre che innumerevole competizioni su pista e strada – instaurando un vero e proprio dominio tecnico.
I grandi successi si susseguivano naturalmente anche nelle competizioni “Grand Prix” e fu soprattutto in queste che la Scuderia Ferrari, fondata da un ex-pilota dal buon talento che aveva stampigliato sulle carrozzerie delle sue macchine il Cavallino Rampante simbolo dell’aviatore Francesco Baracca, raccolse i primi successi portando in pista le Alfa P2 e P3. Non a caso Ferrari, quando vinse per la prima volta in Formula Uno a Silverstone nel 1951 battendo l’Alfa, disse di sentirsi come se avesse “ucciso sua madre”. Nel 1938 Gioacchino Colombo progettò l’Alfetta 158, una straordinaria vettura da Gran Premio spinta da un motore 8 cilindri da 1,5 litri dotato di compressore, che fu capace – al netto degli anni “mangiati” tragicamente dal conflitto mondiale – di dominare la scena delle corse per i tredici anni successivi.
Dal 1946 al 1951, stagione al termine della quale si ritirò spinta dai cambi di regolamento voluti dalla Federazione Internazionale, l’”Alfetta” 158-159 partecipò a 30 Gran Premi vincendone 26, compresi 10 dei 13 disputati nelle prime due edizioni del Mondiale nel 1950 e del 1951, anni nei quali i piloti Alfa Nino Farina e Juan Manuel Fangio si laurearono, naturalmente, Campioni. Nonostante l’addio alla F.1, l’Alfa non rinnegò mai la sua “natura” sportiva: nei decenni successivi e fino all’inizio del nuovo millennio fu protagonista nei rally, nelle competizioni turismo e nel Mondiale Marche, che vinse nel 1975 con la mitica Tipo 33.
In F.1 tornò negli anni ’70 come fornitore di motori prima a McLaren e March e poi alla Brabham. Grazie all’Autodelta dell’ing. Carlo Chiti, fu ancora protagonista in prima persona nel Campionato del Mondo di Formula Uno dal 1979, ma questa volta con meno fortuna del passato: nonostante buoni piloti e progettisti del calibro dello stesso Chiti e di Gerard Ducarouge, il ritorno dell’Alfa si chiuse con molte delusioni e pochi risultati dopo sei stagioni, al termine del Campionato 1985, salvo rimanere come fornitore dei motori turbo per la piccola Osella fino al 1988. Da allora, l’attesa degli Alfisti.
Ecco perché l’Alfa costituisce un pezzo di storia e perché rivederla in pista, magari in un duello fra “rosse” con la Ferrari, suona come un sogno ad occhi aperti. Si parla tanto di strategie ed idee per rilanciare l’automobilismo sportivo e farlo tornare ai fasti di un tempo. Un modo è senza dubbio riscoprire le sue leggende, capaci di accendere i cuori degli appassionati. L’Alfa è una di queste leggende. Speriamo che Marchionne ci creda veramente e ci regali questo sogno. Sarebbe meraviglioso…