Ieri il rendimento del Bund a 10 anni si attestava a 0,90% ma solo il giorno prima aveva superato la quota psicologica dell’1%, innescando un violento processo di riprezzatura del credito in tutto il mondo. Siamo alle soglie di un altro “taper tantrum”, ovvero l’estate del 2013 quando il processo di anticipazione della fine del Qe3 della Fed nei portafogli di investimento innescò scossoni sul mercato del reddito fisso? I numeri ci sono: le perdite legate a obbligazioni hanno toccato 1,2 triliardi negli ultimi tre mesi e i rendimenti sono saliti di 175 punti base in Indonesia, di 160 in Sud Africa, di 150 in Turchia, di 130 in Messico e di 80 punti base in Australia. Ma, purtroppo, l’epicentro della scossa è sempre l’eurozona, dove il Qe di Mario Draghi sta giorno dopo giorno rivelandosi ciò che vi dicevo essere da mesi: un fallimento.
Come anticipato, il Bund è arrivato a toccare l’1,05% di rendimento e anche gli spread di Italia, Francia e Spagna hanno ricominciato a muoversi. Già, anche i nostri. Ma come mai? Il Paese non era fuori dal tunnel grazie a Renzi e al suo governo? E il Qe della Bce non doveva essere il bazooka in grado di spedire gli spread sottozero? Mica tanto, visto che proprio ieri il ministero dell’Economia ha collocato 6 miliardi di euro di Btp con scadenze a 3,7, 15 e 30 anni. I triennali sono stati assegnati a un tasso dello 0,50%, il massimo da gennaio, dallo 0,32% della precedente asta, mentre i settennali sono stati assegnati all’1,76%, il top dal luglio 2014, dall’1,31% della precedente asta. Il rendimento del titolo con scadenza a 15 anni sale dal 2,32% al 2,77% e quello del titolo con scadenza a 30 anni avanza dal 2,92% al 3,36%.
È stata una giornata particolare perché per la prima volta sono stati collocati nello stesso giorno titoli di Stato di tre Paesi non core dell’Eurozona, cioè Italia, Spagna e Irlanda, come hanno fatto notare gli analisti si Citigroup, fattispecie che non ha aiutato a tenere bassi i rendimenti, soprattutto però se i fondamentali macro fanno pietà, a differenza delle Borse in bolla. La Spagna ha infatti collocato 5,769 miliardi di euro di Bonos a 3, 5 e 8 anni, poco sotto l’ammontare massimo previsto a 6 miliardi euro: la domanda per i titoli spagnoli è stata buona, nonostante il volume più alto del solito e la concorrenza delle aste italiane e irlandesi. Madrid ha emesso 1,72 miliardi di Bonos a tre anni con rendimento allo 0,508% (dallo 0,267% del 21 maggio scorso), 3,218 miliardi di titoli quinquennali all’1,257% e 831 milioni di Bonos a 8 anni all’1,951%. L’Irlanda, infine, ha collocato 750 milioni di euro di Gilt a 15 anni con rendimento al 2,216% dall’1,56% del 12 febbraio scorso.
Insomma, si balla. Non è un terremoto, per ora, ma si balla. E lo si fa a livello globale, visto che mercoledì Pimco, il più grande fondo obbligazionario al mondo, ha annunciato di aver ridotto la sua esposizione ai Treasuries Usa dal 23,4% all’8,5% del totale nel mese di maggio, un mannaiata sul portafoglio che non è affatto usuale sul mercato del reddito fisso.
Cosa si teme? Semplice, che la Fed alzi i tassi a settembre facendo salire – e di parecchio – i rendimenti dei bond, quindi abbassandone il prezzo: e qualche sospetto c’è, visto che nelle ultime otto sedute di trading il Treasury a 10 anni ha preso 48 punti base e viaggia in area 2,42% dopo essere arrivato a toccare l’altro giorno il 2,47%. Qualcuno, là fuori, si sta già facendo male. D’altronde quanto sta accadendo era nelle cifre, ovvero nel costante aumento degli aggregati di massa monetaria in Europa e America degli ultimi mesi, di fatto una trappola: la massa monetaria M1 nell’eurozona ha continuato a crescere con un tasso annualizzato del 16,2% negli ultimi sei mesi e non serve un genio del monetarismo per scorgere un’anomalia in questo.
Addirittura, l’aggregato più ampio, la massa monetaria M3, è cresciuta dell’8,4%, un livello che non si vedeva dal 2008. Negli Usa, la massa monetaria M3 ha continuato a crescere a un tasso dell’8% dall’inizio dell’anno, in media con il trend post-bellico. Di più, Capital Economics ha calcolato che la paga oraria è cresciuta negli Usa del 2,9% negli ultimi tre mesi, il tasso più rapido da quando è iniziata l’espansione post-recessione sei anni fa. Qual è il rischio, insomma? Un balzo dell’inflazione entro fine anno, tanto più che il monetarismo vede la massa M1 essere un tipico indicatore a sei mesi per l’economia, mentre la M3 a un anno o più. Non a caso, Jefferies vede l’inflazione al 3% negli Usa entro il quarto trimestre di quest’anno, anche a causa dell’aumento dei prezzi del petrolio atteso (per questo vi rimando all’articolo di ieri).
Insomma, il Qe globale ha svelato ora la sua trappola: la gente pensava di comprare rendimento a rischio zero e invece comprava rendimento zero con rischio. Et voilà, il capolavoro keynesiano è servito. E l’esempio della Bce è calzante, visto che invece di far sparire di fatto i Bund dal mercato (oltretutto Berlino presenta un surplus di budget, quindi potrebbe non emettere o emettere il minimo) ha innescato un innalzamento reflazionario degli spread, visto che il Qe non ottiene i suoi risultati attraverso l’acquisto di carta che abbassa i rendimenti, bensì attraverso la creazione di moneta che li fa alzare. Soprattutto se si opera male come sta facendo la Bce, la quale solo ora si sta rendendo conto di quanto vi dico da sempre: c’è scarsità di bond eligibili all’acquisto. Ora capite perché non più tardi della scorsa settimana il Fmi ha chiesto alla Fed di non alzare i tassi almeno fino alla metà del 2016? Anche perché i debiti – sotto varie forme – denominati in dollari al di fuori del mercato statunitense sono passati da 2 triliardi a 9 triliardi in quindici anni, di fatto rendendo il mondo ancora più dipendente dal biglietto verde e quindi dalle decisioni della Fed, di fatto la vera Banca centrale del mondo.
Nel mondo sviluppato, il debito totale è salito del 30% al record del 275% del Pil dalla crisi Lehman Brothers, mentre nei mercati emergenti è cresciuto del 35% a quota di ratio sul Pil del 180%. E quando un settimanale economico notoriamente sobrio e abbastanza ammantato all’ottimismo istituzionale come l’Economist, dedica la copertina del suo ultimo numero (in edicola da ieri, la vedete qui sotto) al tema “Attenzione, il mondo non è pronto alla prossima recessione”, vuol dire che il mio notorio catastrofismo aveva dei fondamenti di realtà.
E attenzione, perché come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, nel nuovo mondo governato dalla pianificazione centrale delle Banche e sempre maggiormente illiquido, quelle che un tempo erano regolari e frequenti correzioni, ora sono correzioni minori nel numero ma ben più grandi nel volume. I Trasuries Usa presi in esame nel grafico ne sono l’esempio.
E non fatevi ingannare, perché l’errore più grande che si possa compiere è quello di pensare che tutti i rischi si annidino unicamente nel settore obbligazionario sovrano, quello direttamente legato ai governi. Il mercato dei bond corporate americani, infatti, è cresciuto di 3,7 triliardi nell’ultima decade e cosa più inquietante, come ci mostra il secondo grafico, se in passato c’erano circa 23 tipi di investitori in questo mercato, oggi ce ne sono soltanto tre. Un driver chiave, ricordatevi, un vero e proprio catalizzatore visto che mutual fund, investitori stranieri e compagnie assicurative (sì, le stesse che negli spot fanno vedere che salvano la gente da scorpioni e incendi) detengono quasi i due terzi dei debito corporate totale. E quando così in pochi hanno in mano così tanto, i rischi salgono perché quando un fattore avverso impatta, non c’è nessuno pronto a prendere l’altra parte del trade. Tanto più che da recenti dati di Citigroup, le scorte di corporate bonds dei grandi dealers sono crollate di oltre il 76% dal 2009 a oggi, visto che le regolamentazioni bancarie più rigide rendono più costoso detenere assets a rischio.
In parole povere, questi numeri ci dicono che in caso di vendita di massa da parte dei tre grandi detentori (non per forza assieme), i grandi dealers non saranno intenzioni a comprare per operare un offsetting sui flussi di vendita. Insomma, una cascata. E a confermare il tutto, ci ha pensato proprio ieri James E. Staley, managing partner della BlueMountain Capital Management (21 miliardi di dollari di investimenti gestiti), il quale parlando a una conferenza a New York ha dichiarato che «se le crisi finanziarie tendono ad accadere ogni sette anni, allora è arrivato il tempo di cominciare a preoccuparsi per la possibile prossima». Capite ora perché c’è da temere dalla copertina dell’ultimo numero del compassato e molto establishment Economist?