«Le politiche coordinate di quantitative easing e iniezione di liquidità potrebbero avere un ritorno negativo e portare a un nuovo, duro colpo per le banche europee, schiacciate dai problemi riguardanti i debiti sovrani nell’eurozona. La continua mancanza di chiarezza riguardo i tempi, i modi e i volumi di questi interventi contribuiranno infatti ad alimentare la sfiducia degli investitori in tempi in cui i mercati, già di per sé, temono problemi di insolvenza e di ristrutturazione del debito. C’è quindi il forte rischio che la crisi del debito possa tramutarsi in una nuova fuga dalle banche sottocapitalizzate in Europa: l’Fmi può intervenire sulla liquidità ma non può fare nulla per quanto riguarda la solvibilità. Temo, inoltre, che le regole draconiane imposte da Basilea III possano portare il rendimento sull’equity sotto la soglie utility-like del 10%».
Parole di Ashok Shah, guru di London&Capital, contattato da ilsussidiario.net per capire i significati dei rialzi registrati nella giornata di ieri, con l’Asia sugli scudi e l’Europa in forte rialzo all’apertura. Insomma, c’è poco di cui rallegrarsi. Anche sul fronte euro, visto che per Mark Sturdy, direttore di Seven Days Ahead, «la moneta unica europea è destinata a precipitare ai suoi minimi da quando apparve per la prima volta sugli schermi dei traders. Vedo la soglia di 0,90 come più che probabile, situazione che porterebbe la divisa comune dell’Ue ai livelli del 2000-2001»: insomma, chi continua a shortare l’euro ha le sue buone, se non ottime, ragioni.
Così come fa bene chi sta shortando Citigroup, visto che per l’analista Dick Bove, il titolo «è pericolosamente sottovalutato, a causa della svendita governative di sue holdings e degli annunciati piani di ristrutturazione che non si sono concretizzati ne reale book value»: l’altro ieri Citigroup ha guadagnato l’1,82%, ma nonostante questo forte rimbalzo, spinto anche dagli inviti al “buy” di molte agenzie e fondi, rimane sotto la soglia di sicurezza dei 4 dollari per azione, per l’esattezza a 3,82. Chi sta shortando, punta al punto di rottura dei 3 dollari per azione per poi porre il limite di loss addirittura a 1,70.
La mancanza di credibilità di certe grandi istituzioni e la scarsa trasparenza delle mosse poste in essere dai regolatori porta a situazioni limite come queste e rischiano di divenire una sorta di infezione latente del sistema finanziario: fino a che gli shock sono gestibili, il corpo pur non sano resta in piedi. Non appena partirà il crash reale, allora c’è il rischio di una reazione a catena che devasti il già debilitato sistema immunitario dell’impanto finanziario globale: non è un caso a New York si stia lavorando alacremente, sottobanco, per giungere a un sistema di controllo stringente e condiviso per evitare che accada di nuovo quanto successo il 6 maggio scorso, quando un ordine di vendita errato ha scatenato il panic selling e fatto crollare l’indice S&P 500 del 9%, salvo limitare il bagno di sangue in chiusura di seduta.
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All’epoca si parlò proprio di un trader di Citigroup quale colpevole, reo di aver schiacciato il bottone “b” (billion, miliardi) invece che “m” (million): a oggi, non si sa ancora cosa sia successo veramente. Le inchieste della Sec e della stessa Citi non hanno portato a nulla: d’altronde, si tratta di un mercato in cui gli ordini possono essere immessi in 250 microsecondi, cento volte più veloce di un battito di ciglia umano.
A fare paura, ora, sono le parole scritte in una lettera alla Sec da tale Mr. Angel di Georgetown, ripresa con grande enfasi dal Financial Times: «Nel minuto o poco più che occorre a un essere umano per reagire al crack delle macchine, miliardi di dollari di danno sono già accaduti». Insomma, occorre porre un freno e prepararsi al cosiddetto “flash crash” anche in Europa, per questo si punta a un sistema di sicurezza comune: ecco quindi entrare in campo i cosiddetti “circuit-breakers”, ovvero un sistema di controllo che partirà la prossima settimana per i titoli trattati al S&P 500 e che vedrà le azioni che salgono o scendono più del 10% nell’arco di cinque minuti di contrattazione, automaticamente, seppur temporaneamente bloccati.
Misure urgenti ancorchè limitate ma necessarie per un semplice motivo: la relazione finale della Sec non ha, come anticipato, trovato alcuna causa certa al “flash crash”, né il cosiddetto “fat fingers error”, ovvero quando si sbaglia a schiacciare un testo, né il sabotaggio, né l’atto terroristico. Già, avete capito bene: mancano le evidenze ma l’ipotesi dell’attentato terroristico informatico non è stata affatto esclusa a priori, così come quella del sabotaggio. E questa, oggi, è la vera emergenza, più dei possibili attacchi nucleari, batteriologici, i dirottamenti o le bombe sparse per le città: senza spargimento di sangue, si può far crollare interi paesi. America in testa.
Ed è molto più facile che usare mezzi terroristici convenzionali: impossibile per il sistema difendersi del tutto dall’attacco di hacker travestiti da traders, impossibile dar vita a misure di sicurezza o schedature dei traders. Non si è riusciti con i casi di insider trading o turbativa dei mercati, figuriamoci con un atto simile: i timori, l’incertezza e la mancanza di fiducia degli investitori, poi, saranno la dinamo di questa bomba a orologeria, pari per potenziale soltanto all’esplosione della bomba dei cds, qualcosa come 36mila trilioni di dollari.
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Il momento è di quelli perfetti per colpire: instabilità e timori, nuove tensioni geopolitiche innescate dai vari focolai di crisi e ora acuite dalla crisi israelo-turca sono altrettanti indizi che portano le autorità Usa, non solo di vigilanza ma anche e soprattutto di intelligence, a muoversi con grande attenzione e velocità.
Il rischio di un attacco hacker alle Borse è tutt’altro che peregrino: «Il vero shock è che nulla di nefasto o scellerato ha causato il crash. Per quanto ne sappiamo è stato un normale comportamento da investitori, l’atto di qualcuno che voleva porsi in transazione di hedging. È questo che disturba, il fatto che basti un nulla per far cascare i mercati», ha dichiarato David Weild, senior adviser di Grant Thornton ed ex vice-presidente del Nasdaq.
Già, basta un nulla. E chi vuole creare danni o fare molti soldi lo sa benissimo: il 6 maggio è stato soltanto un caso, una fatalità tecnica oppure la prova generale di qualcos’altro, qualcosa di decisamente più grave e pericoloso? Ovvero, un tanto e tacito segreto quanto deliberato stress-test estremo voluto da Nyse e Sec per testare la resistenza del sistema di fronte a un prossimo, preventivato shock: magari dovuto al crollo di Citigroup o a quel contagio del debito sovrano di Eurolandia che gli Usa temono ormai come la morte.
Nessuno, Sec in testa, ha saputo dare una risposta. Ma nessuno, in cuor suo e in tutta onestà, si sente di poter escludere alcunché: dolo compreso. O, forse, in testa. Il moment oè delicato per il sistema finanziario globale, forse più delicato di quello che seguì il crollo di Lehman Broterhs: per il semplice fatto che le liabilities, i bilanci truccati, i bad assets sono tutti lì, nascosti nel silenzio degli off-balance e delle cifre drogate dalla liquidità a pioggia e degli interventi governativi.
C’è da pensarci. Anche perché, se si vuole operare a questi livelli, se si deve scegliere come operare per sopravvivere a dispetto della vita altrui, appare poi facile dare la colpa ad Al Qaeda o chi per essa per il grande crack del secolo. Fantapolitica? Fantafinanza? Probabile, è solo un’ipotesi. Anzi, un’analisi tutta mia. Ma ricordate che era reputato fantafinanza anche il default di Lehman Brothers… .