Il viso ha ritrovato pace. Da tanto tempo il suo sorriso così bello si raggrinziva, era perennemente turbato. Le sue battute e le sue contumelie da morir dal ridere, le sue esplorazioni terrificanti della storia italiana e dei suoi segreti, non davano requie a lui stesso. Aveva un solo punto dove si riposava: annegando nell’abbraccio trinitario di amici cristiani. Un tempo papa Karol Wojtyla (è l’uomo di Stato che lo ha incontrato ufficialmente più spesso: ventitré volte, ma qualcuna l’hanno cancellata per non esagerare) e don Luigi Giussani. Oggi Benedetto XVI. Gli era amico da cardinale, ma un Papa – diceva Cossiga – può avere amici solo altri cardinali, e si sentiva in questa confessione un po’ di amarezza. Ma soprattutto di desiderio.
Aveva le stampelle, non stava in piedi, Cossiga, il 24 marzo del 2007 quando il Papa volle incontrare in San Pietro i ciellini. Andai a prenderlo di mattino presto in casa, e stava male, faceva freddo e non sarebbe dovuto uscire, pioveva a dirotto. Invece volle esserci e come un ragazzino si buttò in ginocchio davanti al Papa per prendere la sua benedizione. Aveva una sete tremenda di grazia. Era un mendicante bambino, lui che è stato uno degli uomini che sulla terra ha raccolto più cariche e titoli, più amicizie e onori. Era uno degli uomini al mondo meglio dotato di relazioni e più conosciuto e stimato a destra e a sinistra, in America e in Cina. Ma non era niente tutto questo sfavillio dinanzi al destino, senza Cristo vivo. Senza che Cristo gli potesse perdonare la morte di Moro, del quale lui mi disse ancora poco tempo fa con un sorriso che non dissimulava un bel niente tranne il dolore più grande del mondo e del sopramondo: “L’ho condannato a morte!”.
Sto condividendo qui il ricordo più forte e bello che ho del presidente Cossiga. Il suo essere l’essenza concreta dell’uomo europeo. Un uomo che è stato duemila anni fa greco e poi ebreo e cristiano. È stato travolto dalla modernità, si è aggrappato al cattolicesimo liberale di Rosmini e Newman. Ha sentito il peso di un moralismo insopportabile, infine il suo dovere di statista. La solitudine. Il monachesimo finale nella memoria amica di don Gius, Giovanni Paolo e Benedetto.
Un aspetto poco conosciuto è quello del suo affetto e della sua santa invidia per don Giussani. Desiderava avere la sua fede, gli obbedì nella scelta decisiva della sua esistenza; matto com’era avrebbe voluto acciambellarsi ai suoi piedi come il Gatto Mammone che si figurava essere per respirare lo stesso tepore della Santa Trinità ardente nel cuore di don Gius. (Uno così non si può non amare, anzi non si poteva non amare, bisogna usare il tempo passato adesso che è morto, ma non mi rassegno, non è giusto, ci dev’essere un’altra giustizia che fa risorgere dai morti).
Non mi intrattengo sul politico e sulla sua idea di politica. Lo faranno molto meglio altri. Mi interessa trasmettere la sua tenera e fanciullesca fede, lui che è stato uno degli uomini di Stato più colti del mondo. Era complicato nella testa, anche nella teologia aveva idee profonde e molto ingarbugliate esposte con perfezione dottrinale. Ma era evidente che non si vive di dottrina, ma di amicizia cristiana, la quale scioglie il cuore nell’Amore. Ecco l’amicizia che lui ha avuto la generosità di accordarmi ha avuto questo segno: in tutto, anche gustando del caffè o del gelato, del vino o un passo di poesia, o c’entra il cuore della realtà, il suo significato, oppure tutto è vanità. E per me, ma anche per lui – ha chiesto di iscriversi alla Fraternità di Comunione e Liberazione – don Giussani, la sua persona vivente anche dopo il suo trapasso, era il segno efficace di Dio nel mondo, di una felicità possibile anche ora, nonostante la nostra miseria, anzi esaltata ancora di più nella sua gratuità dalla nostra meschinità traditora.
Cossiga mi raccontò che fu Aldo Moro a indirizzarlo da don Giussani. Mi disse: «Ho conservato da qualche parte l’angolo di giornale dove segnò i numeri di telefono di Giussani e Formigoni, dicendomi, anzi ordinandomi di chiamarli e di incontrarli. Nel 1976 si era assunto in prima persona l’onere di condurre, pur essendo presidente del Consiglio, la campagna elettorale che minacciava di essere quella del sorpasso. Diceva che gli unici a capire il senso autentico di quello che poteva accadere erano loro, Giussani e Formigoni: e mi mandò da loro».
Quando Moro fu assassinato, Cossiga si ritirò da tutto. Voleva chiudere con la vita pubblica. Andò da don Giussani e gli chiese consiglio. Don Giussani, sempre discretissimo, quella volta lo aiutò a decidere per il rientro in politica, era la sua vocazione…
Ricordo ancora quando nell’ottobre del 2005 a Desio si inaugurava la piazza don Giussani, il paese natale. Nessuno credeva che sarebbe arrivato. Invece venne, e tenne un discorso bellissimo sotto la pioggia sferzante, con una bronchite che lo strozzava. Era così, Francesco Cossiga. Amava il Meeting. Indossò da presidente della Repubblica la maglietta dei militanti, spiritoso e serissimo: ci credeva.