L’attuazione della delega legislativa in materia di apprendistato, già istituita dalla legge n. 247 del 2007, i cui termini sono stati prorogati dalla legge n. 183 del 2010 (c.d. “collegato lavoro”), dovrebbe consentire una complessiva sistemazione della disciplina di quello che va considerato uno dei più importanti strumenti giuridici volti a favorire l’occupazione giovanile. Lo schema di decreto legislativo, approvato nei giorni scorsi dal Consiglio dei ministri, merita dunque tutta l’attenzione.
Il provvedimento conferma la tripartizione delle figure contrattuali, già introdotta dalla riforma Biagi del 2003, riproponendo, innanzitutto, l’apprendistato professionalizzante, che costituisce la tipologia di gran lunga più utilizzata, e affiancandogli i contratti “per la qualifica professionale” e “di alta formazione e ricerca”, che sostituiscono, rispettivamente, quelli “per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione” e “per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione”.
Netta è la volontà del legislatore delegato di proseguire nel percorso di rafforzamento del ruolo della contrattazione collettiva, che a tutti i livelli, compreso quello aziendale, è dichiarata competente, per disciplinare i contenuti di tali contratti, pur nel rispetto di alcuni vincoli e principi di legge (quali, ad esempio, quelli in materia di età, forma scritta, limitazione alla flessibilità retributiva, discipline del recesso), per i quali il provvedimento solo in parte ripete la disciplina previgente, non mancando di inserire novità o di fornire importanti chiarimenti. Ad esempio, finalmente si chiarisce (con importanti implicazioni, al fine della definizione del regime applicabile al recesso) che quello di apprendistato non è un contratto a termine, bensì a tempo indeterminato.
In questa sede, però, interessa soprattutto evidenziare come si confermi e rafforzi il ruolo della contrattazione, soprattutto nella definizione della durata, dei contenuti e delle modalità di erogazione della formazione nel contratto di apprendistato “professionalizzante”. La questione è di notevole interesse, in quanto gran parte del contenzioso in materia si gioca proprio sugli obblighi di formazione, la cui violazione, anche dopo il varo del provvedimento, continuerà a legittimare il lavoratore a reclamare cospicue differenze retributive e risarcimenti danni, gli enti previdenziali a recuperare la differenza tra i contributi pagati in regime agevolato e quelli “pieni” dovuti per i lavoratori qualificati, aumentata del 100%, e gli ispettorati del lavoro a irrogare pesanti sanzioni amministrative.
È inutile nascondere che alcune aziende – soprattutto medio-piccole – tendono ad aggirare tali obblighi. Ma è anche vero che, non di rado, alcuni degli oneri imposti dalla disciplina risultano, nella pratica, pressoché inutili: in particolare, sono ben note le deficienze delle attività di formazione esterna organizzate in molte Regioni italiane. Ed è probabilmente con tale consapevolezza che il nuovo provvedimento abbatte in maniera sensibile l’“offerta formativa pubblica finanziata dalle Regioni, interna o esterna all’Azienda, finalizzata all’acquisizione di competenze di base e trasversali”, portandola a sole 40 ore per il primo anno di contratto e a 24 per il secondo. Per il resto – e cioè per ogni ulteriore formazione, teorica o pratica, necessaria per l’effettiva acquisizione delle competenze – va fatto rinvio ai contratti collettivi.
Se, dunque, il testo licenziato dal Consiglio dei ministri non si modificherà, e se non vi saranno interventi della Corte costituzionale (la sentenza n. 173 del 2010, pur facendo salve le competenze statali, ha comunque imposto al legislatore di mantenere alcune prerogative alle Regioni), la situazione sarà grosso modo la seguente: ogni volta che si faccia questione di adempimento/inadempimento agli obblighi formativi, si dovrà verificare, oltre all’espletamento sulle suddette ore di “formazione regionale”, soprattutto la corretta attuazione delle discipline collettive.
La prospettiva dell’intervento – salva, lo si ribadisce, la verifica della compatibilità della disciplina con il riparto costituzionale delle competenze, che è argomento complesso e non certo affrontabile in questa sede – va condivisa, soprattutto nell’ottica della sussidiarietà: quali sono, infatti, i soggetti più idonei a definire un percorso formativo “vero” e calibrato sulle esigenze effettive delle sempre diverse e mutevoli realtà produttive, se non gli stessi “attori” – imprese e lavoratori – che quelle stesse realtà animano?
Sotto il profilo politico, poi, un simile approccio può senz’altro definirsi bipartisan, posto che il primo principio direttivo imposto al legislatore delegato dalla legge n. 247 (che, non si dimentichi, fu varata dal centrosinistra, in attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007) è appunto quello del “rafforzamento del ruolo della contrattazione collettiva”. Ma tale prospettiva deve anche scontare l’eventualità che – soprattutto nell’attuale clima delle relazioni industriali – la contrattazione possa ritardare, o comunque porre discipline incomplete.
Si consideri, ad esempio, quanto previsto per il tutor: figura anch’essa oggetto di un certo contenzioso, che la bozza di decreto delegato mantiene in vita, semplicemente imponendo alla contrattazione di prevedere la “presenza di un tutore o referente aziendale”, senza altro specificare. Sarà dunque il contratto collettivo a definire i compiti e le responsabilità di tale soggetto, che dovrà accompagnare l’apprendista durante il proprio percorso formativo. E, magari, con l’occasione si potrà confermare un dato che in realtà emerge piuttosto chiaramente dal d.m. 28 febbraio 2000, ma che talvolta gli ispettori del lavoro sembrano voler contestare: e cioè che “la formazione al lavoro deve essere controllata dal tutor, ma l’apprendista può comunque essere istruito dal personale esperto in Azienda” (Trib. Torino 11 ottobre 2010 n. 3705).
Ma che cosa succede se il contratto collettivo non provvede? Qui mi pare che la disciplina rischi il cortocircuito. L’art. 7, comma 6, del testo, infatti, abroga numerose norme, tra le quali l’art. 16, legge n. 196 del 1997, “e ogni altra disposizione nazionale o regionale incompatibile”. Dunque, il suddetto d.m. 28 febbraio 2000, che oggi regola la figura del tutor, dovrebbe venir meno: e ciò sia perché esso è meramente attuativo dell’abrogato art. 16, legge n. 196, e quindi, necessariamente, ne segue la sorte; sia perché, comunque, costituisce disciplina “incompatibile” con le nuove norme, che in materia danno competenza alla sola contrattazione.
Né sembra potersi invocare la norma transitoria del comma 7 del medesimo art. 7, la quale prevede solo che, “per i settori in cui la disciplina del presente decreto non è immediatamente operativa trovano applicazione, in via transitoria, le regolamentazioni contrattuali vigenti”, nulla accennando detta disposizione circa l’eventuale ultrattività di discipline non contrattuali (tra le quali, appunto, va annoverato il suddetto decreto ministeriale).
L’esempio appena svolto evidenzia un problema tipico della produzione legislativa in materia di lavoro, che, negli ultimi tempi, si è decisamente aggravato (si veda, ad esempio, ciò che sta succedendo nell’interpretazione delle discipline del “collegato lavoro”): opzioni politiche più o meno condivisibili vengono attuate con norme non chiare, o comunque di scarso livello tecnico, così che, nella pratica, il precetto risulta incerto e suscettibile di essere addirittura stravolto in sede giudiziaria.
Problemi del genere si potranno porre per un’altra disposizione, anch’essa contenuta nell’art. 7 del decreto, la quale prevede che il personale ispettivo, qualora rilevi l’inadempimento agli obblighi di formazione, non possa più subito pretendere, come oggi accade, le maggiorazioni contributive: prima, infatti, si dovrà notificare un provvedimento, con il quale si assegna “un congruo termine al datore di lavoro per adempiere”, e dunque per evitare le conseguenze dell’illecito.
La norma è assai opportuna; e tuttavia, per come formulata, essa appare generica, e suscettibile di porre non pochi problemi in sede applicativa. Che cosa succede, ad esempio, se il contratto è nella sua fase terminale, e quindi, per “recuperare” una formazione effettiva, sarebbe necessario andare oltre il termine di scadenza del contratto? E ancora, se oltre all’ispettore c’è anche il lavoratore, che contesta gli stessi inadempimenti per reclamare di essere subito riconosciuto come lavoratore qualificato, che fine fanno tali pretese?
Le questioni sono molte, complesse, ma, come è evidente, tutte di grande rilevanza pratica. Una seria riflessione sul testo che, prima della definitiva emanazione, abbia riguardo anche ai profili di tipo squisitamente tecnico-giuridico, sembra pertanto opportuna.