La settimana scorsa questa piccola rubrica rifletteva sul caso Montepaschi. Le tensioni tra una fondazione azionista di maggioranza assoluta e una banca bisognosa di rafforzamenti patrimoniali nel vortice della crisi autorizzava a scorgere una fase nuova – inattesa e incerta – nello sviluppo dei rapporti tra gli enti “sussidiari” inventati quasi vent’anni fa dalla legge Amato-Carli e i grandi gruppi bancari nati nel frattempo dalle fusioni facilitate da quella riforma privatizzatoria. Non sono passati che pochi giorni e quel cordone ombelicale è entrato in sofferenza presso un altro gigante bancario italiano, il primo: UniCredit, dove la Fondazione Cariverona ha traumaticamente rifiutato di perfezionare per la sua quota la ricapitalizzazione annunciata quattro mesi fa.
A Siena l’oggetto del contendere resta la necessità della Fondazione di mantenere un prelievo di dividendo dall’utile della banca per sostenere le erogazioni in attività no-profit sul territorio. La Banca Mps d’altronde avrebbe bisogno indubbio di trattenere tutti i profitti (peraltro stimati in diminuzione a fine 2008 e nel 2009) per irrobustire la base patrimoniale e rendere meno vulnerabile il gruppo ai venti della crisi. Ma sullo sfondo pesa un’altra condizione critica: al Monte sarebbe certamente utile un aumento di capitale (o un’operazione finanziariamente equivalente).Il suo azionista di controllo maggioritario, tuttavia, è la Fondazione Mps, che difficilmente può far fronte a una sostanziosa ripatrimonializzazione e d’altra parte esclude di poter diluire la sua posizione di garanzia assoluta del localismo senese. In ogni caso: lo “status quo” comprime pesantemente la valutazione di Borsa dell’Mps e le sue prospettive di recupero e quindi conferma una sensibile perdita patrimoniale per la Fondazione. L’aiuto pubblico attraverso l’emissione di bond sottoscritti dal Tesoro resta un’opportunità eventuale, ma non ancora definita nelle sue caratteristiche tecniche e nelle sue conseguenze complessive di mercati e di politica creditizia.
In UniCredit la situazione è in parte diversa, ma non troppo. La banca guidata da Alessandro Profumo è stata la prima a essere messa sotto pressione dalla crisi. Già durante le settimane drammatiche contrassegnate dal fallimento simbolico di Lehman Brothers, UniCredit ha perduto il grosso del suo valore di Borsa per le voci e le congetture di forti perdite legate all’esposizione globale della più internazionalizzata tra le banche europee. A fine settembre, tuttavia, Piazza Cordusio ha risposto con la sua iniziativa, annunciando un’operazione di rafforzamento patrimoniale da 6,6 miliardi di euro attraverso strumenti ibridi: in sintesi obbligazioni subordinate convertibili, già ora considerabili “capitale” dalla Banca d’Italia e dal mercato. Il piano è stato garantito per intero da Mediobanca, alla cui presidenza c’è oggi quel Cesare Geronzi che aveva condotto alla fusione in UniCredit il gruppo Capitalia, al cui bilancio erano ancora collegate cartolarizzazioni difficili. D’altro canto l’istituto di Piazzetta Cuccia ha avuto la possibilità – già nel frattempo realizzata – di diventare subito primo azionista di UniCredit (che è dal canto suo primo azionista relativo di Mediobanca) con il 6% circa.
L’iniezione di mezzi freschi era stata in ogni caso sostenuta dai soci storici della banca, tra i quali spiccano le Fondazioni Cariverona (5% a settembre), CariTorino (4%), Carimodena e Monte Bologna. Vale la pena di ricordare che l’operazione varata a settembre a tamburo battente vedeva i soci storici (tra cui anche i giganti assicurativi tedeschi Munich Re e Allianz) versare nelle casse di UniCredit mezzi al valore equivalente di 3 euro per azione, quando già il prezzo di Borsa era inferiore, con la finalità di contrastare il clima di sfiducia che metteva in serio pericolo non più solo il corso del titolo, ma anche gli equilibri di liquidità. L’effetto non è stato quello sperato e oggi il titolo UniCredit galleggia tra 1 e 1,5 euro. Nel frattempo i fondi sovrani libici hanno acquistato in Borsa il 5% di UniCredit a circa 2,2 euro e pretendono ora una rappresentanza in consiglio e potenzialmente una vicepresidenza.
La percezione del mercato attorno a UniCredit, intanto, non è migliorata, anzi: lo stesso Profumo, più volte vociferato di abbandono, non ha escluso di chiedere aiuti pubblici a governi e banche centrali dei paesi dell’Europa centro-orientale: ciò a conferma implicita che la forte presenza del gruppo in quell’area (dalla Germania all’Austria alla Polonia ad altri paesi balcanici) è fonte di crescente preoccupazione. È a questo punto che, esclusa la sostituzione dell’amministratore delegato ed essendo in rinnovo ad aprile il consiglio d’amministrazione, la Fondazione Cariverona ha chiesto un segnale di discontinuità almeno nella presidenza, finora affidata al tedesco Dieter Rampl. Quest’ultimo era divenuto chairman nel 2005, all’indomani della fusione tra UniCredit e l’austro-tedesca Hvb, dal bilancio già scricchiolante. La dialettica (in particolare con la Fondazione Crt, strettamente legata a Mediobanca) ha però “blindato” anche Rampl, provocando la reazione di CariVerona: senza la possibilità di incidere sul vertice (in particolare in una fase di forte sfiducia delle Borse), un ente che amministra un patrimonio di privato sociale non può puntare centinaia di milioni di euro “a prezzo d’amatore” su una banca, cioè su un’impresa tra le più rischiose del momento.
Di più: se è vero che la parte più rilevante dei problemi di UniCredit è stata “imbarcata” con Hvb, per Cariverona è giusto che sia la componente tedesca del gruppo a fare un passo indietro (nella presidenza e anche nella dirigenza delle divisioni di corporate banking). Infine: se il titolo in Borsa vale al massimo 1,5 euro, è a quel prezzo che una fondazione può comprare rispondendone ai suoi “stakeholders”. Che è quello che ha fatto la fondazione veronese, portandosi al 6,08%: la stessa quota che fa nominalmente Mediobanca, dopo la ricapitalizzazione, il primo socio di UniCredit. Nei prossimi giorni, quando i soci dovranno far riquadrare la lista del cda per la prossima assemblea, vedremo come evolverà questa forma di contagio di una fase tre di cui banche e fondazioni avrebbero certamente fatto volentieri a meno.
E non è affatto escluso che quella che pare una “guerricciola” di potere italiana sfoci in una soluzione strutturale d’avanguardia in un’Europa inondata di aiuti pubblici affannosi: una maxi-ristrutturazione che coinvolga UniCredit, Mediobanca e Generali. Con un gruppo più forte e razionale, senza aiuti pubblici e senza più “banchieri che hanno sbagliato” per di più senza passaporto italiano.