La figura di Gianni Agnelli è sempre stata circondata da un’aura mitologica della quale non sono mai riuscito a trovare le ragioni. Sono quindi rimasto viepiù sorpreso nel ritrovare questa mitizzazione in un articolo proveniente dalla Cina, quello di Lao Xi. O forse, proprio in Cina il mito resiste, perché filtrato dalla lontananza dalla realtà.
Eppure, mi fa un certo effetto risentire parlare di “ultimo re, o principe d’Italia”. L’ultimo vero re d’Italia, il “re di maggio” Umberto II, era una persona seria e responsabile: il paragone andrebbe fatto, semmai, con Vittorio Emanuele III, colui che portò l’Italia al disastro, come l’Avvocato vi portò la Fiat.
Proprio l’operato di Marchionne ha dimostrato cosa un imprenditore capace poteva fare e come il fallimento della Fiat non fosse il risultato di un destino malvagio, ma della assoluta inadeguatezza dell’Avvocato al compito che, a sua parziale discolpa, forse non era quello che avrebbe voluto gli fosse addossato.
Lao Xi ha ragione quando prevede tempi duri per Torino, che ha legato il proprio destino alla Fiat, ignorando i rischi della “monocultura” anche industriale. Il rischio però rimane della sola città, essendo la numerosa famiglia Agnelli già diretta verso altri lidi, pare soprattutto finanziari, grazie al patrimonio accumulato a suo beneficio dall’Avvocato, anche se in buona parte a spese dello Stato italiano e, quindi, dei suoi contribuenti.
Mi sembra poi un po’ catastrofica, e fuori dalla realtà, la previsione che senza un “colpo di reni” di Torino l’Italia rischi lo sfascio. Così come mi sembra una visione viziata dalla lontananza l’enfatizzazione del ruolo nazionale di Torino, ceduto a Roma non per “generosità” ma per puro calcolo politico, ben coscienti i sabaudi che la loro capitale era una cittadina di provincia, certamente non più italiana di Napoli, ma di essa molto meno capitale, e comunque non in grado di rappresentare la nuova nazione.
Lo stesso Lao Xi ammette tra le righe, più oltre, che non Torino fosse indispensabile all’Italia, bensì quest’ultima a Torino per uscire dalla sua marginalità; problema questo che non avevano certamente le altre capitali italiane, come Venezia, Firenze, Napoli, per non parlare di Roma. Non credo che Torino sia sull’orlo dell’abisso, non più di tante altre città almeno, e sono altrettanto convinto che l’Italia non “si sfracelli” se Torino non ritrova la sua missione nazionale e mondiale, che peraltro le auguro.
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Forse, dalla Cina non si sono accorti che ormai da lungo tempo il motore economico dell’Italia è Milano, anche se un po’ appannata nel suo ruolo di “capitale morale” contrapposta a Roma “capitale politica”. Né forse si sono accorti che la peculiarità del nostro sistema economico è la miriade di Pmi e le molte “multinazionali tascabili”, moltissime delle quali nulla hanno a che fare con la Fiat, attive in Lombardia, nel Triveneto, in Emilia Romagna e in molte altre regioni, compreso ovviamente il Piemonte.
Certo, a parte tutto, nell’immaginario collettivo storico, non solo italiano, la 500 conserva un ruolo importantissimo e determinante, e di questo dobbiamo dar merito alla Fiat. Senza togliere nulla alla 500, però, simboli di quegli anni sono anche stati la lombarda Lambretta e la Vespa, co-protagonista in un film cult come Vacanze romane, per non parlare della Alfa Romeo e della sua mitica Giulietta. E a questo proposito, occorre citare la fine, non certo gloriosa, che rischia di fare questo marchio un tempo simbolo di italianità in tutto il mondo.
D onor del vero, nella vicenda Alfa Romeo la responsabilità maggiore spetta ai politici dell’epoca e al presidente dell’Iri, Romano Prodi, che non si seppe opporre alla vendita dell’Alfa alla Fiat. Val la pena di rimarcare che il concorrente all’acquisto era allora la Ford, l’unica delle tre grandi società automobilistiche americane ad aver superato la crisi senza l’intervento diretto del governo.
Come allora, anche nella questione Fiat attuale sono scarsi i motivi di soddisfazione forniti dalla classe politica e dal governo, che ha mostrato in questa situazione, come per Alitalia, Telecom e altri casi, l’assoluta mancanza di una seria politica industriale. Potrebbe essere questa la risposta alla mia perplessità iniziale: quel ruolo per me incomprensibile è stato assegnato a Gianni Agnelli non per la sua grandezza, ma per la pochezza degli altri. Ma prima o poi, i nodi vengono al pettine, sia per la Fiat che per Torino, con buona pace degli amici cinesi.