Durante il dibattito sui tre quesiti referendari promossi dalla Cgil, gli esponenti di quel sindacato hanno fatto più volte riferimento alla “Carta dei diritti universali del lavoratore”. Anzi, in una nota della segreteria confederale della primavera scorsa era scritto: “La scelta referendaria, a carattere eccezionale e straordinario, è unicamente finalizzata al sostegno della Proposta di Legge di iniziativa popolare che la Cgil avanza con la ‘Carta’, che è e rimane il cuore e la finalità dell’iniziativa decisa dalla Cgil”. Tale concetto è stato, in seguito, ribadito da Susanna Camusso: “La nostra speranza è che il Parlamento faccia una legge, per noi il referendum è solo un pungolo al Parlamento, non l’obbiettivo finale. Quindi speriamo che con tante firme si arrivi a legiferare e quindi a far cadere i quesiti referendari”.
Sappiamo poi come è finita la partita. La Corte Costituzionale ha bocciato il quesito sulla disciplina del licenziamento individuale, mentre ha ammesso gli altri due: quello sugli appalti e quello abrogativo dei voucher. È plausibile ritenere che il Governo proverà a introdurre delle modifiche, la cui adeguatezza a disinnescare i quesiti referendari sarà valutata dalla Cassazione. A questo proposito, la Cgil non fa sconti e dichiara che il solo modo per evitare il referendum sui voucher sta scritto nella “Carta”, dove ben due articoli – l’80 e l’81 – disciplinano la materia in termini talmente restrittivi e burocratici da vanificare ogni tentazione di utilizzo.
Ma non è di questo che intendiamo parlare. La campagna referendaria ci darà la possibilità di ritornare più volte su questo argomento. Vale la pena, invece, di afferrare il toro per le corna e andare a leggere questa famosa “Carta”. E restare stupefatti. Perché si tratta di un progetto di legge di ben 97 articoli nei quali vengono trattati (talvolta maltrattati) un’infinità di argomenti. In pratica viene riscritto il diritto del lavoro, il diritto sindacale e, in parte, quella della previdenza sociale. Altro che nostalgia del pansindacalismo degli anni ruggenti. Per fortuna la riforma costituzionale è stata bocciata, altrimenti il Parlamento sarebbe stato obbligato a esaminare quel progetto di legge.
Le indicazioni sui trovano sul sito della Cgil. La confederazione di Susanna Camusso ha fatto le cose in grande, corredando l’articolato di un ampio commentario che ne spiega i contenuti. Da antichi studiosi della materia (sia in ragione dell’età veneranda, sia delle professioni svolte), siamo stati particolarmente colpiti da quanto previsto dal Titolo II, dove sono previste le norme per l’attuazione degli articoli 39 e 46 della Costituzione: il primo (articoli 27-38) riguardante l’organizzazione sindacale, i temi della rappresentanza e della rappresentatività e dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi; il secondo (articoli 39 e 40) la problematica dei diritti di partecipazione dei lavoratori alle decisioni dell’impresa.
Limitiamoci al primo di questi problemi con una domanda: perché mai un sindacato come la Cgil, settant’anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, si mette in testa di resuscitare una norma defunta e dimenticata, infilando se stessa, le sue consorelle, le sue controparti in una gabbia di regole burocratiche invasive (registrazione, verifiche, controlli amministrativi, ecc.) rifiutate da sempre, non conformi all’ordinamento sindacale operante da anni e incoerenti con lo sviluppo che la contrattazione collettiva dovrebbe avere, dal momento che invece di evolvere verso una maggiore flessibilità e aderenza alle realtà produttive, sarebbe ingessato in uno schema legislativo (valido appunto erga omnes) quell’assetto contrattuale gerarchico e centralizzato che dovremmo lasciarci alle spalle? Ci sarà pure una ragione se l’articolo 39 è “in sonno” da decenni, mentre in Italia si è sviluppato, nel tempo, un sistema di relazioni sindacali solido e strutturato, completamente extra (non contra) legem.
Nell’immaginare l’ordinamento intersindacale i Padri costituenti scelsero di non tornare al modello sindacale pre-fascista, ma puntarono (alla fine inutilmente, visto che l’articolo 39 è rimasto sulla carta) a far evolvere in senso democratico e pluralista il modello ereditato dal corporativismo la cui attività contrattuale era stata salvaguardata da un decreto luogotenenziale del 1944, tanto da divenire la base della contrattazione collettiva dell’Italia democratica, mentre, al contrario, le associazioni sindacali fasciste erano state subito disciolte e commissariate già a opera del Governo Badoglio (dopo la caduta del regime il 25 luglio del 1943).
Durante il ventennio l’assetto sociale aveva assunto un rilievo istituzionale e amministrativo, nel senso che la corporazione organizzava al proprio interno tanto i datori di lavoro quanto i lavoratori di una particolare categoria (i cui confini erano individuati anch’essi in base a una scelta di natura amministrativa e pubblica). Ambedue le parti erano chiamate a lavorare insieme per l’interesse superiore dello Stato. Nell’ambito della corporazione venivano definiti i contratti collettivi che avevano praticamente valore di legge. Lo sciopero era proibito; le controversie, individuali e collettive, erano sottoposte alla Magistratura del lavoro, una vera e propria giurisdizione speciale incaricata di dirimere non solo le controversie individuali ma anche quelle collettive.
È facile comprendere, sulla base di questa breve descrizione, che sull’impianto complessivo dell’articolo 39 è rimasta molta polvere del passato regime. Il legislatore costituzionale, cioè, essendosi trovato a gestire la transizione dal regime fascista alla democrazia e avendo a che fare, in materia di lavoro, con un impianto consolidato, fatto di norme valide erga omnes e perciò applicate nelle aziende, si limitò, in larga misura, a riformulare l’ordinamento previgente alla luce dei sacri principi della libertà e della democrazia e a immaginarne (non era agevole per quei tempi) una concreta operatività ispirata al pluralismo. Ma è rimasta visibile la sua preoccupazione di rivisitare in altre forme le questioni che il modello corporativo – a suo modo – aveva affrontato e risolto.
Durante il fascismo i sindacati erano praticamente una branca della Pubblica amministrazione? Nell’Italia democratica riprendevano piena libertà, ma continuava a sussistere il problema di conferire loro una personalità giuridica (ancorché) di diritto privato, sottoposta al solo requisito di uno statuto interno a base democratica, al fine di definirne una precisa identità, secondo quanto dettato dalla legge ordinaria che avrebbe dovuto applicare la norma costituzionale. L’ambito della categoria come riferimento della contrattazione a quel livello rimaneva centrale come lo era stato nel precedente contesto in forza di un pregiudizio ideologico divenuto norma (il corporativismo, appunto, come forma di organizzazione dello Stato). Si spiega così in una certa misura la centralità che la contrattazione nazionale ha avuto nell’assetto della contrattazione collettiva.
Infine, il legislatore costituzionale era ossessionato dall’esigenza di individuare un meccanismo che, persino in un contesto di possibile pluralismo sindacale, consentisse di conferire un’efficacia erga omnes ai contratti collettivi, altrimenti applicabili – secondo i principi generali del diritto comune – soltanto agli iscritti alle organizzazioni stipulanti. In buona sostanza, per quanto riguarda l’ordinamento sindacale il fascismo aveva promosso e orientato un processo evolutivo, già in corso dopo la conclusione della Grande Guerra, ma il cui sbocco era ancora incerto. Il legislatore costituzionale, dal canto suo, aveva confermato, in alcuni suoi aspetti, quell’ordinamento – di cui il contratto nazionale di categoria era l’architrave – pur andando “a risciacquare in Arno” i panni della democrazia anche per il sindacato.
L’articolo 39 poi si è trasformato in un “convitato di pietra”: non è applicato da sempre (e non è neppure applicabile per tanti motivi); ma da sempre è lì a impedire che si risolvano in maniera differente e più adeguata i problemi che esso affrontava e, a suo modo, risolveva. Per fortuna, l’ordinamento intersindacale e il sistema delle relazioni industriali hanno trovato la loro strada, anche in assenza di una legislazione attuativa dell’articolo 39. Che senso avrebbe, allora, tornare indietro nella storia, quando proprio il recente rinnovo dei metalmeccanici ha aperto una nuova frontiera verso la contrattazione di prossimità e la flessibilità delle regole negoziali?