Si chiama (ancora provvisoriamente) Convenzione, in realtà si sta rivelando uno dei problemi maggiori per Enrico Letta. Doveva essere la chiave che apriva la porta delle riforme istituzionali, il premier nel discorso di presentazione del governo a Montecitorio ne ha parlato come un cardine dell’azione dell’esecutivo. Al punto da legare il «tagliando» dei 18 mesi – su cui misurare efficacia e durata – proprio all’azione della Convenzione che dovrebbe modificare l’assetto istituzionale.
Il canovaccio dei contenuti è stato scritto, in buona sostanza, dai 10 saggi. La direzione di questa specie di nuova Costituente è autorevolmente sorvegliata dal presidente della Repubblica. I partiti forzatamente alleati in questa inedita alleanza sanno che l’avvio dei lavori è una tappa obbligata per sostenere il governo. Eppure tutto è bloccato. Prima la discussione sul rinvio, la cancellazione o la restituzione dell’Imu; poi le schermaglie sui nomi di viceministri e sottosegretari; ora i preliminari della Convenzione per le riforme. Il premier Letta è un politico dotato di ampie scorte di pazienza, ma dovrà presto ripristinarle perché ne sta consumando parecchia.
Silvio Berlusconi ha proposto se stesso come presidente dell’assemblea riformista. Il Pd tramite Matteo Renzi ha detto no. Stefano Fassina, fresco viceministro all’Economia, gli si è affiancato riallineando renziani e bersaniani nel minimo comune denominatore che sembra ancora tenerli uniti, cioè l’antiberlusconismo. Gli uomini del Pdl non hanno potuto che sostenere l’autocandidatura del loro leader. E così, invece che procedere sulla strada della riappacificazione auspicata, tra Pd e Pdl si incrociano quotidianamente le spade. L’esecutivo procede giorno per giorno sul filo di equilibri molto precari. E di fatto, a parte incassare il largo voto di fiducia delle due Camere e presentarsi nelle tre capitali dell’Europa che conta (Berlino, Bruxelles e Parigi), Letta non ha ancora avviato una vera azione di governo.
La cosa all’apparenza paradossale è che, in questo tiro alla fune, chi gioca d’anticipo è il Pdl mentre il Pd è costretto a operare di rimessa. È il partito di Berlusconi a dettare tempi e temi di questa fase, tenendo Letta sulla corda e costringendo il Pd a rincorrere. Paradossale perché nell’«interregno» di due mesi il Pdl aveva dato dimostrazione di compostezza e responsabilità, propugnando fin da subito la soluzione delle larghe intese. Il partito meno litigioso dopo le elezioni si sta rivelando il più determinato a provocare litigi adesso, che non hanno lo scopo di arrivare alla rottura, ma quello di mantenere tutti sul «chi vive».
Berlusconi non si fida dei compagni di avventura. Da un lato deve uscire dalle strettoie giudiziarie, dall’altro non può apparire come un semplice «portatore d’acqua» a un esecutivo che resta guidato dal vicesegretario del Partito democratico e nel quale non riesce a piazzare propri fedelissimi, a differenza di quanto invece riesce ad Angelino Alfano. E così, in base al principio che nessuno può porre veti o pregiudiziali sui nomi proposti soprattutto dalla «forza politica che ha reso possibile la nascita di questo governo» (argomento ripetuto ancora ieri da Sandro Bondi), si procede a colpi di schermaglie.
Al momento i partiti della «strana maggioranza» sono dunque divisi su tutto ciò che riguarda la Convenzione dei 75: presidenza, composizione, temi, procedute. Gaetano Quagliariello, ministro delle Riforme dopo essere stato uno dei 10 saggi nominati da Giorgio Napolitano, ha detto ieri che «non mi impiccherò alla Convenzione» perché essa «è lo strumento, non il fine» delle riforme. La settimana prossima verranno finalmente costituite le commissioni parlamentari e poi si vedrà che strumento adottare per le riforme.