Il tema dei licenziamenti legati alla malattia del lavoratore è oggetto di accesi dibattiti. Ne è prova lo scalpore suscitato dal caso della giovane donna in coma vegetativo licenziata dal datore di lavoro per ragioni legate all’attività produttiva. Per evitare di dare giudizi affrettati sul singolo caso, può essere utile conoscere, anche solo sommariamente, il quadro normativo di riferimento.
Il legislatore ha attribuito al dipendente, in caso di malattia o infortunio, il diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo di tempo determinato, denominato “periodo di comporto”. Prima della scadenza del periodo di comporto, la malattia del lavoratore non legittima il datore di lavoro a procedere al licenziamento e un eventuale licenziamento intimato al dipendente per motivi diversi dalla malattia (ad esempio, per giustificato motivo oggettivo o soggettivo) rimane comunque privo di effetti (di qui l’increscioso e diffuso fenomeno del ricorso a certificazioni “di comodo” da parte dei lavoratori in procinto di essere licenziati; e di qui la prassi delle aziende di licenziare i lavoratori con effetto immediato e con pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso in luogo del preavviso lavorato).
La durata del periodo di comporto è prevista dal singolo contratto collettivo di categoria applicabile al rapporto i lavoro e varia in relazione, oltre che al comparto produttivo di appartenenza, all’anzianità di servizio del lavoratore e alla tipologia di comporto. Si distinguono, infatti, due diverse tipologie di comporto: il “comporto secco”, che si riferisce all’ipotesi di un unico evento morboso, e il “comporto per sommatoria”, che riguarda l’ipotesi di una pluralità di episodi morbosi discontinui e ripetuti.
Analizzando le previsioni della contrattazione collettiva, si constata che la durata di conservazione del posto di lavoro, in caso di unica interruzione di malattia, varia generalmente da 6 a 12 mesi (Ccnl Metalmeccanici oltre i 6 anni di servizio) e può arrivare anche a 22 mesi (Ccnl settore Bancario oltre i 25 anni di servizio). Durante il periodo di comporto è dovuta al lavoratore un’indennità – in parte erogata dall’Inps e in parte pagata dal datore di lavoro – nella misura e per il tempo determinati dalla legge e dai contratti collettivi. Nei primi tre giorni di malattia l’indennità è integralmente a carico dell’azienda.
La tutela garantita al lavoratore è quindi necessariamente limitata, dovendosi contemperare interessi e valori diversi che fanno capo a ciascuna parte del rapporto di lavoro. Il rapporto di lavoro, infatti, è un rapporto di tipo contrattuale e non “assistenziale”; e ciò implica che le prestazioni siano “corrispettive”: a fronte dell’attività lavorativa prestata dal lavoratore, il datore di lavoro corrisponde al lavoratore una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione.
Qualora la malattia si protragga per un periodo superiore al comporto, il lavoratore può essere licenziato per “giustificato motivo oggettivo”, a meno che la malattia non sia imputabile al datore di lavoro. Con sentenza del 07/04/2011, n. 7946, la Cassazione ha infatti ribadito il principio secondo cui, in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro, ove l’infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme.
D’altra parte, in base ai principi di correttezza e buona fede il lavoratore subordinato deve tenere una condotta che non si riveli lesiva dell’interesse del datore di lavoro all’effettiva esecuzione della prestazione lavorativa, per cui la mancata prestazione dovuta allo stato di malattia del dipendente trova tutela nei limiti delle disposizioni contrattuali e codicistiche in quanto non sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore stesso. E così il licenziamento del datore di lavoro è legittimo qualora il dipendente si assenti per malattia per periodi prolungati, se la malattia stessa sia stata causata da un suo comportamento imprudente.
In particolare, la Cassazione ha rilevato la legittimità del licenziamento intimato a un lavoratore che aveva utilizzato le ferie autorizzate, non per accudire la madre ammalata, come dichiarato, ma per andare in Madagascar, esponendosi peraltro al rischio prevedibile di contrarre malattia, così come già avvenuto in precedenti ricadute corrispondenti ad altri viaggi nello stesso Paese (sentenza del 25.1.2011, n. 1699).
In caso di superamento del periodo di comporto, l’azienda è tenuta a comunicare il licenziamento tempestivamente, specificandone la causale. Il lavoratore può evitare il licenziamento soltanto se, prima del termine del comporto, abbia richiesto e ottenuto dall’azienda di beneficiare di un ulteriore periodo di aspettativa non retribuita (trattasi di una possibilità prevista dalla maggior parte dei contratti collettivi).
Tornando al caso della donna licenziata in stato vegetativo, le principali critiche rivolte contro l’azienda hanno riguardato il fatto che la lettera di licenziamento era successiva alla richiesta, formalizzata dal marito perché ovviamente la signora non poteva farlo, di godimento delle ferie e dei permessi maturati prima dello scadere del periodo di malattia consentito.
Al riguardo, la Cassazione ha chiarito (con sentenza del 22/04/2008, n. 10352) che non sussiste un principio per il quale il datore di lavoro debba, “di ufficio”, convertire l’assenza per malattia in ferie. Né, a maggior ragione, esiste un dovere del datore di lavoro di avvertire il lavoratore, assente per lungo tempo, che il periodo di conservazione del posto sta per scadere. Infatti, il lavoratore è in grado, anche con l’assistenza del sindacato, di effettuare la somma dei giorni di assenza per malattia e di verificare se il periodo di conservazione del posto stia per scadere.
In precedenza (con sentenza del 27/02/2003, n. 3028), la Cassazione aveva statuito che non può configurarsi un’incondizionata facoltà del lavoratore assente per malattia, e ulteriormente impossibilitato a riprendere servizio, di sostituire alla malattia il godimento delle ferie maturate quale titolo della sua assenza. Tuttavia, il datore di lavoro, nell’esercizio del suo diritto alla determinazione del tempo delle ferie, è tenuto, se sussiste una richiesta del lavoratore di imputare a ferie un’assenza per malattia, a prendere in debita considerazione il fondamentale interesse del richiedente a evitare la perdita del posto di lavoro a seguito della scadenza del periodo di comporto (Cass. 28/01/1997 n. 873, 19/11/1998 n. 11691, 17/02/2000 n. 1774, 11/05/2000 n. 6043 e 08/11/2000 n. 14490).
In altre pronunce è stata sottolineata l’inesistenza di un obbligo del datore di lavoro di accordare le ferie al fine di evitare il superamento del periodo di comporto (Cass. 02/10/1998 n. 9797) o si è comunque ribadita la non configurabilità di un automatico prolungamento del periodo di comporto per malattia per il tempo corrispondente ai giorni di ferie maturati e non goduti, in assenza di richiesta del lavoratore (Cass. 04/06/1999 n. 5528).
È quindi necessaria la presenza di una richiesta del lavoratore di fruizione delle ferie perché si produca l’obbligo del datore di lavoro di prendere in considerazione l’ipotesi di accordare al medesimo le ferie durante un periodo di malattia. Infatti, in linea generale, gli interessi particolari dei singoli prestatori di lavoro possono essere presi in considerazione dal datore di lavoro, al fine di determinare il periodo di fruizione delle ferie, solo se gli sono portati a conoscenza.
Inoltre, la fruizione delle ferie durante la malattia si pone potenzialmente in contrasto con il principio di (possibile) incompatibilità tra godimento delle ferie e malattia, di modo che solo ove sussista una richiesta del lavoratore, che intenda privilegiare l’interesse a prevenire l’esaurimento del periodo di comporto, può ipotizzarsi la sua collocazione in ferie in costanza di denunciata malattia. La Cassazione ha poi ulteriormente precisato che “non sussistono adeguate giustificazioni logico-giuridiche perché la rilevanza della richiesta venga meno in presenza di condizioni di confusione mentale del lavoratore”.
Prima della scadenza del periodo di comporto, il lavoratore in malattia può essere licenziato soltanto per giusta causa, ovvero per una causa che non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. Tra le ipotesi di giusta causa, la giurisprudenza fa rientrare anche quella in cui il lavoratore sia risultato assente alle visite di controllo e quella in cui il lavoratore sia stato sorpreso a svolgere, durante l’assenza dal servizio per malattia, una diversa attività lavorativa o comunque un’attività incompatibile con il dovere del lavoratore di porre in essere tutte le cautele necessarie a un rapido recupero delle proprie energie lavorative.