Quello che si svolge nei Palazzi del potere è un negoziato oppure si tratta solo di un bel dibattito su ciò che sarebbe utile fare in tema di mercato del lavoro? Governo e parti sociali si incontrano da tempo con una frequenza pressoché settimanale, tracciano scenari di riforma degli ammortizzatori sociali destinati ad andare a regime in un triennio (ovvero quando ci saranno un’altra legislatura e un altro Governo, sempre che in questo Paese prima o poi si torni a votare), discutono della (in)adeguatezza delle risorse che è stato possibile reperire. Poi si riconvocano, magari per ribadire nuovamente i medesimi concetti.
Dai dispacci di agenzia si capisce che la confusione è tanta. Ieri è nata una nuova prestazione denominata Aspi, che dovrebbe assorbire tutto quanto ora non rientra nella cassa integrazione ordinaria. Immaginiamo che un’impostazione siffatta – è prevista altresì una rimodulazione della durata delle diverse prestazioni – miri a distinguere tra interventi di natura previdenziale (la cig ordinaria, appunto) per chi non cessa il rapporto con l’azienda a causa di un problema momentaneo di difficoltà produttiva e misure di carattere assistenziale a favore di chi ha perduto il lavoro, tendenzialmente – di qui l’accorpamento in un’unica prestazione – erogate in modo uniforme a tutti i lavoratori economicamente alle dipendenze. La decorrenza dal 2015 dovrebbe servire a non introdurre cambiamenti significativi in un contesto economico e sociale gravido di problemi occupazionali e ad auspicare che nei prossimi anni i cordoni della borsa siano un po’ meno tirati.
Nell’orientarsi tra i meandri di un negoziato che non ha il pregio del render chiaro all’opinione pubblica ciò che sta succedendo, vengono in mente parecchie domande. Innanzitutto si ha l’impressione che l’esecutivo non abbia a sufficienza riflettuto sulle trasformazioni di fatto che il Governo Berlusconi ha determinato nel campo degli ammortizzatori sociali in generale, della cassa integrazione in particolare. Nell’ambito della crisi sono sparite le distinzioni tra le differenti tipologie di cassa integrazione per passare, con provvedimenti amministrativi, a un regime caratterizzato da una sostanziale soluzione di continuità, tra cassa ordinaria, straordinaria e in deroga, nel senso che, esaurito il tempo della prima, è stato consentito alle aziende di usufruire della seconda e così via, senza che si rendesse necessario motivare la richiesta in modo conforme alle finalità istituzionali delle singole gestioni.
Basti ricordare il Messaggio n. 13406/2009 dell’Inps per avere le prove di come una banale operazione di carattere amministrativo sia stata in grado di avviare una riforma sostanziale della prestazione più importante tra gli ammortizzatori sociali. «Si evidenzia in proposito – era scritto nel Messaggio – che la lettera-circolare del Ministero del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali, n. 14/0005251 del 30/3/2009 ha attualizzato il concetto di “evento improvviso ed imprevisto” che genera la “crisi aziendale”, nel senso che questa non deve necessariamente ascriversi a fattispecie interne alla singola impresa, ma a tutte le situazioni quali “riduzione delle commesse, perdita di quote di mercato interno o internazionale, contrazione delle esportazioni, difficoltà di accesso al credito” che – prolungandosi nel tempo – comportino ricadute negative sui volumi produttivi e sui livelli occupazionali rientrando nelle previsioni dell’ art. 1, c. 5 l. 223/1991. Tenendo conto di tali indirizzi ministeriali – proseguiva il Messaggio – si ritiene che rientri nelle fattispecie previste dalla norma la situazione per cui un’azienda la cui crisi sia ricompresa nei criteri sopra descritti, possa accedere alla Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria immediatamente dopo e senza soluzione di continuità con la Cassa integrazione ordinaria quando questa sia stata fruita nel limite massimo di 52 settimane».
Se questi erano gli antefatti e se questa interpretazione ha consentito al sistema degli ammortizzatori di reggere il confronto con le sfide più ardue della crisi economica, perché non dare veste giuridica più definita a tale esperienza anziché muoversi in un’altra direzione con soluzioni che rischiano di sembrare poco comprensibili per quelle stesse imprese che devono servirsene attraverso modalità operative il più sollecite possibili? Quanto alle risorse, il Governo afferma (almeno così raccontano) di avere trovato 2 miliardi aggiuntivi. A tal proposito si pongono due domande: la prima è relativa al rifinanziamento della cassa integrazione in deroga che deve essere assicurato se si vuole fare fronte alle esigenze che permangono; la seconda risale al capitolo pensioni.
Sappiamo che la riforma Fornero aveva inizialmente mantenuto i previgenti requisiti per i lavoratori in mobilità e in prosecuzione volontaria (oltre ad altre casistiche minori). Poi, strada facendo, si sono aggiunti gli “esodati” (ovvero coloro che avevano concordato – in caso di esuberi volontari – con i propri datori di lavoro extraliquidazioni ragguagliate agli anni mancanti per il conseguimento della pensione, risultando poi spiazzati in conseguenza dell’innalzamento dell’età pensionabile). Il fatto è che questi casi sono finiti sotto l’ombrello della copertura finanziaria prevista in precedenza per i lavoratori in mobilità e in prosecuzione volontaria.
Poiché era evidente la mancanza di un’adeguata copertura la Ragioneria generale ha preteso una clausola di garanzia consistente, ove si ponga la necessità, in un incremento delle aliquote contributive, a carico dei datori, per gli ammortizzatori sociali a partire dalla disoccupazione. Non è fuori luogo, dunque, l’ipotesi per cui eventuali nuove risorse per gli ammortizzatori finiscano per coprire buchi vecchi delle pensioni? Vedremo. Comunque ripetiamo il principio di fondo di questo negoziato: esso deve servire a rendere meno precario l’accesso al lavoro e più flessibile l’uscita. In sostanza, senza una riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è meglio lasciar perdere.