Il mercato dell’auto è in crisi profonda non solo negli Stati Uniti e in Giappone ma anche in molti paesi europei, tra cui l’Italia. I dati del 2008 sono quasi tutti preceduti dal segno meno e le prospettive per il 2009 appaiono ancora peggiori.
Nello scorso anno nei paesi dell’Unione sono stati immatricolati 14,3 milioni di autoveicoli, 1,2 milioni e l’8% in meno del 2007, ma questi dati non rendono conto adeguatamente del declino in atto, poiché esso si è accentuato in corso d’anno sino ad assumere valori preoccupanti nei mesi più recenti. In dicembre, la riduzione delle immatricolazioni rispetto allo stesso mese dell’anno precedente ha infatti raggiunto il 19% nei quindici paesi della vecchia Unione e potrebbe incrementare ulteriormente.
L’Italia nel 2008 si è comportata peggio della media europea poiché in media d’anno ha riportato un -13,4% e rispetto ai quasi 2,5 milioni di immatricolazioni del 2007 il calo è stato di 333 mila unità (oltre un quarto della riduzione che ha interessato l’intera Unione).
Non consola inoltre il fatto che in dicembre il calo sia risultato in linea con quello medio anno (-13,3%) anziché peggiore; è stato infatti limitato da chi ha desiderato utilizzare gli incentivi per la rottamazione, scaduti a fine anno e per il momento non rinnovati. Dicembre a parte, il calo su base annua nei mesi compresi tra maggio e novembre è nell’ordine del 18% e in gennaio l’attesa per nuovi provvedimenti del governo, congiunta all’accentuarsi della crisi, dovrebbe aver fatto crollare le immatricolazioni di oltre un terzo rispetto a gennaio 2007.
Dati così negativi rendono impossibile sostenere che non si debba fare nulla anche a chi è convinto, come chi scrive, che lo Stato debba minimizzare le sue interferenze nel funzionamento dei mercati. Senza interventi di politica economica è poco probabile che il 2009 possa chiudersi con un mercato dell’auto al di sopra di 1,9 milioni di immatricolazioni; questo significa che dopo aver perso un terzo di milione di immatricolazioni nel 2008 dovremmo metterne in conto (almeno) un altro quarto nel 2009.
Vi sono invece almeno quattro ragioni in favore di un intervento pubblico nel settore.
La prima deriva dal fatto che la domanda dei consumatori per l’acquisto di mezzi privati di trasporto è la più elastica rispetto al reddito tra i differenti capitoli di spesa delle famiglie, e quindi è destinata a contrarsi di più nelle fasi di recessione economica. Se interpretiamo una crisi economica come una serie di falle che si aprono in un recipiente chiamato Pil e ne riducono il livello, quella relativa al mercato dell’auto è senza dubbio tra le più consistenti e appare ragionevole che le politiche pubbliche se ne occupino in via prioritaria.
La seconda ragione è strettamente di finanza pubblica: la caduta della domanda di auto accresce la spesa pubblica per i provvedimenti di sostegno ai lavoratori del settore (cassa integrazione, sussidi di disoccupazione) e riduce le entrate fiscali. Le 333 mila immatricolazioni in meno del 2008 non comportano solo minori ricavi per produttori e rivenditori ma anche minori introiti per le casse pubbliche che solo in relazione all’Iva sono stimabili in 800-900 milioni di euro. Se nel 2009 si perderanno altre 250 mila immatricolazioni, il fisco farà a meno di ulteriori 650-750 milioni (le stime sono prudenziali). Può dunque risultare conveniente, anche adottando un approccio puramente contabile, prevenire la caduta nelle entrate stabilendo incentivi a sostegno della domanda.
Il Governo francese prevede che il contributo per la sostituzione di auto con più di dieci anni in favore di auto a basso impatto di CO2, che è stato stabilito nello scorso dicembre in ragione di mille euro, interesserà nel 2009 circa 200 mila consumatori dei quali si stima che metà non avrebbero cambiato auto in assenza del contributo. Se questi valori sono corretti il provvedimento avrà un effetto positivo sul bilancio francese in quanto le entrate fiscali generate dalla domanda stimolata di auto risulteranno più elevate rispetto alle uscite prodotte dall’incentivo.
La terza motivazione deriva dall’elevato prelievo fiscale che interessa i consumi legati all’automobile. Quando facciamo il pieno, infatti, più dei due terzi della nostra spesa sono destinati a essere riversati al fisco e, complessivamente, si stima che la pressione fiscale sull’insieme delle voci di spesa legate all’automobile (acquisto, manutenzioni, consumi, assicurazioni, pedaggi, ecc.) sia superiore al 30%. Sembra in conseguenza ragionevole che in un momento di crisi accentuata che interessa un settore produttivo più di altri, le politiche pubbliche vadano nella direzione della riduzione della tassazione netta di quel settore (tassazione meno incentivi).
La quarta ragione trae origine da alcune specificità del mercato italiano dell’auto che lo differenziano dagli altri principali paesi europei. Il nostro paese infatti vede un mercato molto forte dal lato della domanda ma debole da quello della produzione. Sul primo versante l’Italia è il paese dell’Unione a più alto tasso di motorizzazione (65 autoveicoli ogni 100 abitanti contro 61 della Spagna, 59 della Germania, 57 della Francia e 56 del Regno Unito) e di acquisto di nuovi veicoli (oltre 40 ogni mille abitanti nel 2007, in linea con la Spagna e un po’ al di sopra di Germania, Regno Unito e, soprattutto, Francia). Sul secondo versante bisogna invece ricordare che, date 100 autovetture immatricolate in ogni paese, la produzione in Italia è solo di 47 contro 60 nel Regno Unito, 127 in Francia, 141 in Spagna e 148 in Germania. L’Italia, nonostante la presenza di un grande gruppo nazionale, è importatore netto di auto, come il Regno Unito e al contrario dei rimanenti paesi.
I dati precedenti implicano che le politiche pubbliche non si possono disinteressare né del lato della produzione né di quello del consumo poiché l’elevata motorizzazione, congiunta a una scarsa dotazione infrastrutturale, è all’origine di problemi più consistenti sia di congestione del traffico che di inquinamento ambientale.
Si può dunque concludere che un provvedimento di incentivo alla rottamazione e all’acquisto congiunto di veicoli a basso impatto ecologico è senz’altro utile e consigliabile e a certe condizioni è anche nell’interesse delle casse pubbliche. Per risultare davvero incentivante tuttavia, considerando la gravità della crisi in atto, non può essere troppo contenuto nell’importo. È dunque preferibile stabilire un incentivo più consistente, destinato a una platea più ridotta di veicoli vecchi, anziché diluire l’incentivo su una platea più consistente.
Questo strumento, ampiamente utilizzato in passato sia nel nostro che in altri paesi, è tuttavia destinato a perdere di efficacia nel corso delle sue reiterazioni e il rischio è che si limiti ad anticipare nel tempo (effetto peraltro apprezzabile in tempo di recessione) le decisioni di acquisto dei consumatori. La recente esperienza francese dimostra tuttavia che possono essere pensati strumenti di tipo nuovo, in grado di influire anche sulla composizione della domanda per tipologia di veicoli e di indirizzarla in un senso favorevole agli obiettivi ecologici.
A fine 2007 il governo francese ha introdotto un bonus-malus, non legato alla rottamazione, il quale stabiliva un contributo pubblico per veicoli al di sotto di una certa soglia di emissioni di CO2, crescente al diminuire delle emissioni (da 200 a 5.000 euro, nel caso di zero emissioni, ma la maggior parte dei veicoli beneficiari ha ottenuto 700 euro), e una tassa sui veicoli al di sopra di una certa soglia di emissioni, crescente all’aumentare delle emissioni (200, 750, 1600 e 2600 euro il malus previsto per le differenti categorie).
A distanza di un anno dall’introduzione si può trarre un primo bilancio: il mercato francese nel suo complesso si è salvato nel 2008, dato che ha subito una riduzione delle immatricolazioni solo dello 0,7%, ma l’effetto bonus-malus sulla composizione della domanda è stato consistente: la fascia di veicoli beneficiata dal bonus è cresciuta di diverse decine di punti percentuali mentre il contrario si è verificato con le categorie penalizzate. Poiché le vetture a minor impatto di CO2 per chilometro sono anche quelle di piccola taglia, appartenenti alle gamme inferiori, il bonus-malus ha avuto il prevedibile effetto di avvantaggiare queste categorie e le marche che in maggior misura le producono, ovvero i due grandi produttori francesi e la nostra Fiat. Ha invece penalizzato i veicoli di taglia maggiore, quali grandi berline e grandi monovolume, prevalentemente importate dall’estero. Il bonus-malus, peraltro, ho avuto anche l’effetto distorsivo di penalizzare le motorizzazioni a benzina relativamente al diesel, il quale si comporta bene sul CO2 ma va molto peggio dei motori a benzina su alcuni inquinanti direttamente dannosi per la salute che non sono stati inclusi nel provvedimento francese.
In conclusione possiamo dire che:
1- Il contributo alla rottamazione è molto meglio di nulla;
2- Il bonus-malus alla francese è molto meglio del solo contributo alla rottamazione;
3- Non sarebbe male se noi italiani, prendendo esempio dall’esperienza francese, introducessimo un bonus-malus più sofisticato in grado, oltre a limitare gli effetti della crisi sullo specifico mercato e sul Pil nazionale, anche di ottenere qualche risultato interessante sul fronte delle emissioni inquinanti. Si tratta di un obiettivo più consistente per noi rispetto ai cugini d’oltralpe se consideriamo che un parco veicoli maggiore circola su una rete stradale molto più ridotta in un territorio che non raggiunge il 60% di quello francese.