Il recente bollettino “Moneta e banche” della Banca d’Italia mette in rilievo un forte aumento delle sofferenze bancarie nel corso degli ultimi dodici mesi, passate da settembre 2010 a settembre 2011 da 72,9 miliardi a 102 miliardi di euro. Penso che nessuno sia rimasto sorpreso da questi dati, che confermano un aumento che si era visto accumularsi mese per mese e già denunciato tra gli altri dall’ABI, l’associazione delle banche.
Viene così confermato il trend in forte aumento delle sofferenze in atto dal 2008: sempre considerando come data di riferimento la fine di settembre, in quell’anno esse ammontavano a meno di 44 miliardi, per passare a quasi 55 nel 2009 (con un aumento del 25,4%), a 72,9 nel 2010 (+ 32,6%) e infine ai 102 già visti a settembre di quest’anno, con un incremento del 39,9%. L’aumento è stato percentualmente più forte per le famiglie consumatrici, il 46,3% contro il 39,9 del totale, mentre l’incremento minore si è registrato per le famiglie produttrici, 27,2%.
Decisamente preoccupante il confronto con il settembre 2008, da cui si evidenzia una crescita delle sofferenze totali del 132%, come già visto da meno di 44 a 102 miliardi di euro. In assoluto si tratta di 58 miliardi in più in tre anni, di cui 39,5 attribuibili alle imprese (+ 145,9%) e 14,1 alle famiglie (+141,2%). Si sono difese meglio le famiglie produttrici, che hanno registrato un aumento di 3,8 miliardi di euro (+ 62%). Esigue per ammontare, ma ugualmente interessanti, sono le sofferenze bancarie delle istituzioni senza fini di lucro, passate da 156 milioni del 2008 ai 379 del 2011, con un incremento del 142,9%, allineato a quello delle imprese e delle famiglie.
Questi dati danno un quadro molto chiaro della crisi che stiamo attraversando e costituiscono un’ipoteca sulla ripresa, indicando una consistente distruzione di ricchezza in atto nella nostra società. La situazione sarebbe verosimilmente ancor più grave se venissero prese in considerazione le altre fonti di indebitamento, soprattutto delle famiglie, così come l’utilizzo dei risparmi per evitare il ricorso alle banche e la falcidie di questi risparmi per il crollo di Borsa e altri strumenti finanziari.
Inutile quindi stupirsi della diminuzione dei consumi interni, anche se ciò sta avvenendo, almeno per il momento, in modo non omogeneo tra i vari settori produttivi, come d’altronde tra gli strati della popolazione. Un’analisi in tal senso darebbe senza dubbio risultati molto interessanti, anche per suggerire eventuali azioni di intervento.
Certo, qualche dubbio sull’interpretazione di questi dati rimane, non ovviamente nel senso di metterne in discussione la autenticità, ma per il possibile cambiamento di atteggiamento degli attori. E se, da parte dei prenditori di prestiti, ci si può aspettare che le banche vengano considerate come creditori di “ultima istanza” rispetto al macellaio che “altrimenti non mi vende la carne”, da parte delle banche non sarebbe sorprendente una maggiore prudenza nei confronti dei crediti erogati, con una maggior rapidità a passarli in sofferenza rispetto al passato. Questa crisi è stata caratterizzata fin dal suo inizio da un crollo di fiducia, anche tra istituzioni finanziarie, che tuttora permane. Se le banche hanno difficoltà a fidarsi tra loro, non c’è da meravigliarsi che divengano più “occhiute” nei confronti dei loro creditori.
Questo sarebbe, a ben vedere, un altro aspetto di quella stretta creditizia che, minimizzata dalle banche, è costantemente denunciata dalle imprese, soprattutto medie e piccole. D’altro canto, le richieste di rientro dai crediti poste in modo anticipato, o comunque perentorio, a queste imprese non credo sia una causa irrilevante per l’aumento delle sofferenze, quando non hanno portato addirittura alla chiusura delle imprese stesse.
Con i debiti delle grandi imprese, le banche si comportano spesso in modo diverso e, in base al principio del “troppo grande per fallire”, invece di mandare in sofferenza tali crediti preferiscono entrare nel capitale dell’impresa come azionisti. Non a caso, una di queste operazioni, quella fatta da Intesa San Paolo con Alitalia/Airone, è alla base delle critiche a Corrado Passera, neoministro alle infrastrutture e trasporti, fino all’altro ieri amministratore delegato del gruppo bancario e co-artefice dell’operazione.
Se fosse accertato che le sofferenze bancarie delle imprese sono concentrate nelle imprese medio-piccole, occorrerebbe denunciare fortemente l’operato del precedente governo che, ad onta di tutte le promesse fatte, non sembra abbia fatto molto per risolvere quel vero e proprio scandalo dei ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione. Le stime fatte sono diverse, ma si parla di una cifra fino a 60 miliardi di euro. L’obiezione è che, pagando questi debiti, si aumenterebbe il debito pubblico, obiezione francamente bizzarra visto che la pubblica amministrazione è già indebitata per questo importo, anche se magari riesce a nasconderlo con artefici contabili che il pagamento rivelerebbe. Almeno questo sembra essere il punto a giudicare da recenti discussioni in Parlamento.
Tuttavia, anche se emergesse un incremento di debito pubblico, il pagamento alle imprese dei debiti arretrati sarebbe una misura in favore della ripresa, a patto che i pagamenti avvenissero rapidamente e direttamente alle imprese e non immessi in fumosi circuiti, burocratici o bancari. Possiamo sperare qualcosa di più da un governo di tecnici come l’attuale? Vedremo.