Celebriamo oggi i cinquant’anni di un cult movie dell’epoca d’oro del cinema italiano: L’Armata Brancaleone. Il film, uscito il sette aprile del 1966, per fortunato destino comune a molti altri a lui coevi vanta una nobile paternità composita: del regista Mario Monicelli, autore anche del soggetto; degli sceneggiatori Age & Scarpelli, la coppia principe dell’italica commedia, da indiziare come i primi responsabili della grande verve farsesca del film; degli attori principali, su tutti il mattatore Vittorio Gassman, divertente e divertito interprete del protagonista Brancaleone da Norcia, lo sgangherato Cavaliere che si dice “impuro, bordellatore insaziabile, beffeggiatore, crapulone, lesto de lengua e di spada, facile al gozzoviglio”.
In un’Italia anonima di un imprecisato anno del Basso Medioevo, un manipolo di straccioni ruba una pergamena a un cavaliere creduto morto, la quale, a firma dell’Imperatore Ottone I il Grande, conferisce al portatore, purché cavaliere, la proprietà del feudo di Aurocastro in Puglia. Il manipolo trova il suo condottiero in Brancaleone da Norcia, squinternato cavaliere reduce da un torneo perdente, ma di nobile ascendenza e di singolare eloquenza. Nel tragitto verso il lascito pugliese, l’improvvisata compagnia di ventura passa attraverso mille traversie (tra cui la peste e l’assalto dei pirati saraceni) per venire alla fine salvata dalla vendetta del redivivo cavaliere, padrone della pergamena e del feudo, da Zenone il santone (Enrico M. Salerno), che risolve la tenzone conducendo l’Armata con sé in Terra Santa.
Il film, pur essendo in costume e ambientato ai tempi delle prime Crociate nella penisola che i greci antichi chiamavano Esperia, va pienamente ascritto al genere commedia, in particolare quel peculiare segmento di questo genere (più che un sottogenere, un canovaccio dai nobili ascendenti, che risalgono alla commedia dell’arte) identificato con l’aggettivo “italiana”, che poi ha finito per individuare una modalità: “all’italiana”. Ne ha infatti tutte le caratteristiche più tipiche. Prima di tutto, come già accennato, l’autorialità a molte mani, condivisa tra regista, sceneggiatori e attori; quest’ultimi capaci di traslare le tradizionali maschere della commedia dell’arte in personaggi archetipici (il fanfarone, il furbo, l’arrivista servile, l’indolente, ecc.), maschere moderne di un cinema dal forte connotato socio-culturale. Poi la struttura: un intreccio avventuroso e itinerante che consente agli autori di mescolare elementi eterogenei, sia di matrice popolare che di alta matrice letteraria, che fanno del film un godibilissimo crogiuolo di richiami macro-testuali. I riferimenti più immediati sono cinematografici, e vanno da La Sfida del Samurai (Kurosawa, 1961) a Donne e Soldati (Marchi e Malerba, 1954); ma la base della vicenda è letteraria, rintracciabile con molta evidenza nella tradizione cavalleresca, come “I Romanzi Cortesi” di Chretien de Troyes o i testi del cantore del Quattrocento italiano Luigi Pulci, o ancora in storie picaresche come l’immenso “Don Chisciotte” (Cervantes, 1610. Non a caso il dispettoso cavallo di Brancaleone si chiama Aquilante).
La grande intuizione degli sceneggiatori, il vero capolavoro del film, è però la strana lingua parlata dai protagonisti: una sorta di dialetto viterbese con forme grammaticali tardo latine, misto a qualche parola latina dialettizzata, secondo la tradizione del verbo “macaronico”, linguaggio e genere letterario comico nato negli ambienti universitari di Padova alla fine del Quattrocento. Anche in questo si rintraccia una peculiare caratteristica della commedia italiana: scrittori di vasta cultura e preparazione letteraria prestati alla sceneggiatura cinematografica.
Il film non ha invece, apertamente, nessuna pretesa di correttezza filologica e storiografica. Ma pur tra qualche anacronismo storico (un tacchino nell’aia quattrocento anni prima della scoperta dell’America) e una toponomastica completamente inventata, “macaronica” come il suo linguaggio, il meccanismo filmico funziona alla grande: il suo impatto comico buffonesco ci fa dimenticare le imprecisioni storiche, che comunque in una pellicola a elevatissima coerenza interna come L’Armata Brancaleone non sono nemmeno da considerare tali.
Ancora un volta dobbiamo rilevare che il Cinema è il Cinema, luogo narrativo completo e bastante a se stesso. Così, alla fine, la vicenda e l’ambientazione risultano comunque plausibili, avendo il pregio di allontanarsi da precedenti visioni cinematografiche troppo stereotipate e falsamente mitologiche. L’Italia medievale che emerge dall’intreccio picaresco e volutamente sgangherato del Brancaleone appare popolata da straccioni e appestati, ladri e cialtroni, fortemente divisa tra fede e peccato, istanze spirituali e appetiti carnali, vita e morte; visione che alla fine non è così lontana dal rendere giustizia alla Storia.
L’Armata Brancaleone ebbe un – parzialmente inatteso – grande successo di pubblico, tanto che regista e sceneggiatori furono costretti dal produttore Mario Cecchi Gori a scrivere e girare, quattro anni dopo, il seguito Brancaleone alle Crociate. Il secondo comincia dove finisce il primo, riprende i personaggi principali e beneficia di, anche se in parte forzate, azzeccate modifiche del cast (gli ingressi di Gigi Proietti – nel ruolo del peccatore auto-flagellante -, Paolo Villaggio e Lino Toffolo; l’uscita di Gian Maria Volonté, Enrico Maria Salerno e Catherine Spaak). Raro, forse unico esempio di serialità di qualità in anni caratterizzati invece da irripetibili pezzi unici, spesso d’autore.
Capita al nome dei grandi autori di diventare aggettivo dal significato universale, che trascende il particolare senso di una o più opere (felliniano, kafkiano, proustiano, ecc.); ovvero alle grandi opere di contenere nomi o locuzioni che diventano di uso comune, secondo il fenomeno linguistico dell’antonomasia (la Perpetua, i Paparazzi, ecc.). La circostanza non ha tralasciato di accadere anche per il bel film della triade Monicelli-Age-Scarpelli: in diversi dizionari della lingua italiana la locuzione “armata Brancaleone” è censita e dotata del significato antonomastico di “gruppo raccogliticcio di persone, le cui imprese maldestre hanno esito negativo o ridicolo” (Zanichelli 2012). Questo semplice fatto linguistico funziona come la punta di un iceberg, ci segnala – ceteris paribus – L’Armata Brancaleone come un autentico capolavoro, una delle vette più alte che il cinema popolare e farsesco italiano abbia mai raggiunto e che, coi tempi che corrono, probabilmente non toccherà mai più.