Di solito, la nascita di un nuovo partito avviene alla vigilia di un appuntamento elettorale. Soltanto per citare gli ultimi casi: il Partito democratico vide la luce nell’ottobre 2007, alla vigilia del voto del 2008. Due mesi dopo, dal famoso «predellino» di piazza San Babila, Silvio Berlusconi annunciò la nascita del Popolo della libertà, anche se l’ufficialità si sarebbe avuta nel 2009. E Scelta civica, la formazione che fa riferimento a Mario Monti, ha preso forma proprio in vista delle ultime elezioni politiche.
Se dunque Berlusconi riesuma Forza Italia, tornando a relegare il Pdl a semplice federazione di diverse realtà politiche (come era stato nella tornata elettorale del 2008), c’è da chiedersi se l’Italia non sia attesa da una nuova riapertura delle urne, anche se si è votato lo scorso febbraio, e benché le recenti amministrative abbiano confermato il crescente fastidio astensionistico degli elettori. La minaccia del voto anticipato, sia pure non esplicito, ha una sua ragione: nonostante la dimostrazione di responsabilità, cioè il convinto sostegno a un governo di larghe intese guidato da un uomo del centrosinistra, il Pdl non incassa risultati all’altezza del proprio impegno.
Le stangate fiscali su Imu e Iva sono soltanto rimandate, non cancellate, mentre sul fronte giudiziario al Cavaliere non ne va dritta una. Che ci stiamo a fare al governo se non portiamo a casa nulla?, è il ragionamento dei falchi berlusconiani. Lo spauracchio di azzoppare l’esecutivo di larghe intese è un’arma efficace in mano al Pdl. Il quale ora aggiunge la giustizia al pacchetto di riforme che l’esecutivo dovrebbe varare entro l’estate perché siano approvate entro i 18 mesi che Enrico Letta si è dato come scadenza per il primo «tagliando» di efficacia operativa.
In questi mesi il Pdl si è posto, con indubbia abilità, come sostenitore di Letta più convinto dello stesso Pd. Senza Berlusconi, le larghe intese non sopravvivono: questo è il messaggio passato in questi mesi, ed è vero. Ma solo in parte. Perché nelle ultime settimane emerge un’altra chiave di lettura, confermata ieri dall’intervista del presidente del Senato, Piero Grasso, a Repubblica. Un’angolazione diametralmente opposta: che cioè Berlusconi può sperare di non essere espulso dalla vita politica (cosa che sta avvenendo per via giudiziaria) soltanto se sostiene il governo.
Non è vero che Letta sopravvive solo con l’appoggio di Berlusconi. Viceversa, solo se il Cavaliere sostiene Letta può sperare di sopravvivere. Non è il Pdl a puntellare il governo: è Palazzo Chigi (e il suo sponsor più potente, cioè il Quirinale) a offrire l’ultima chance a Berlusconi.
In questo senso va intesa l’intervista a Grasso quando dice che «la legge elettorale va fatta subito, prima delle altre riforme», compresa quella della giustizia (non dimentichiamo che il numero uno di Palazzo Madama è un magistrato di primo piano); che «esprimersi dentro una coalizione come una forza di opposizione al governo è quanto di più deleterio possa realizzarsi»; e, soprattutto, che «nel caso in cui venisse meno la fiducia a questo esecutivo, sono certo che Napolitano non escluderà nessun’altra possibilità per altre possibili coalizioni».
Quali? Per esempio, quella di cui si parla da tempo: ricomporre l’alleanza Pd-Sel che avrebbe già la maggioranza di 340 voti alla Camera e potrebbe essere puntellata al Senato dai transfughi del Movimento 5 Stelle e dai montiani che non vorrebbero più collaborare con un Cavaliere gravato da condanne infamanti. È perciò inevitabile e comprensibile l’arrabbiatura del Pdl, per una volta unito nella protesta contro una figura istituzionale che travalica il proprio compito di garanzia per assumere un ruolo politico.
Non è detto che Grasso abbia informato il Colle della sua uscita su Repubblica. Ma è molto probabile che il Quirinale condivida il segnale di Grasso: non si torna a votare con questo sistema elettorale. E a questo punto, se c’è qualcuno che deve rientrare nei ranghi e sostenere il governo Letta come ultima spiaggia, questo sarebbe proprio il Pdl. O Forza Italia, come presto si farà chiamare.