Un azzardo. Di quelli seri ma che, in situazioni come quelle attuali, occorre mettere sul piatto visto che porta con sé un obiettivo ambizioso e comune: raggiungere gli 80-100 miliardi di dollari di interscambio tra Italia e Cina entro i prossimi 5 anni. Questo l’azzardo condiviso ieri dal Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi e dal premier cinese, Wen Jiabao.
Attualmente l’Italia è il 21/esimo Paese nella classifica degli esportatori in Cina: «C’è ancora molto da fare», osservava la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, citando fra i settori di interesse per il futuro le alte tecnologie, l’impiantistica e le reti complesse. «La Cina rappresenta un mercato di enormi opportunità. È imprescindibile per qualsiasi strategia presente e futura dell’impresa italiana» ha concluso la Marcegaglia.
Wen Jiabao, dal canto suo, ha spiegato che la Cina ha spalancato le porte a un aumento degli investimenti delle imprese italiane: «Spero che le imprese italiane possano camminare in prima fila tra i paesi dell’Ue, anzi del mondo. Fino a questo momento si registrano investimenti italiani da 5 miliardi di dollari e seimila progetti di imprese, ma questi numeri sono ancora troppo poco – osservava Wen – e non corrispondono ai reali rapporti economici tra Italia e Cina. Basti pensare che gli investimenti Usa nel nostro Paese hanno superato i 60 miliardi di dollari e quelli europei nel loro complesso i 50 miliardi. La Cina considera l’introduzione di tecnologie e gli investimenti esteri come un punto chiave del suo sviluppo. So che in questa sala sono presenti tanti Marco Polo di oggi».
Già, dei Marco Polo. Ma anche degli abili Richelieu, come il nostro premier. Dal quale è arrivato invece un «apprezzamento ammirato» per il ruolo della politica internazionale della Repubblica Popolare Cinese: il premier ha elogiato la “molta saggezza” che c’è nelle relazioni internazionali della Cina la quale «si presenta sempre con la volontà di sedare tutti i contrasti e risolvere tutte le situazioni con grande saggezza e serietà» nel segno di quella che un ministro cinese ha definito una politica ispirata “all’armonia”. Chiedere referenze al riguardo a Taiwan, Tibet, Giappone e ultimamente Usa.
Soddisfazione, inoltre, è stata espressa dal presidente del Consiglio per le novità nell’ordinamento cinese che ha parificato le condizioni operative delle imprese a capitale straniero e quindi italiano, a quelle a capitale nazionale: «Ciò – sottolinea Berlusconi – comporta notevoli facilitazioni dal punto di vista burocratico, fiscale e alla possibilità di partecipare a gare d’appalto». Insomma, un bel po’ di quattrini e di possibilità di sviluppo all’orizzonte: molto bene, sulla carta. Ma attenzione, perché questo sacrosanto atteggiamento di rapporto privilegiato con la Cina porta con sé un doppio pericolo.
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Primo, l’invidia dei partner europei, visto il chiaro altolà di Wen Jiabao all’Ue e alle sue pressioni per una giusta valutazione dello yuan sui mercati: il fatto che un leader cinese aggiunga a braccio una frase al riguardo nel suo discorso ufficiale all’Ue parla chiaro e dice che se l’Europa vuole vedere l’euro spaccato in due dalla sera alla mattina non deve fare altro che mettere il naso nelle questioni cinesi. Secondo, il sentimento anti-italiano che aleggia da tempo negli strati intermedi del governo Usa, leggi il Dipartimento di Stato e le sue emanazioni di consorteria come Foreign Policy e Council on Foreign Relations, potrebbe ora contagiare anche altri settori, ponendoci nella “black list” di chi spalanca un po’ troppo le porte al nemico. Si sa, gli americani hanno una concezione tutta loro della guerra: guai a chi dice “beh” sulla loro politica di interscambio vitale con Pechino fatta di export contro gestione del debito, ma se un partner cerca, giustamente, di mangiare la fetta di torta che gli spetta, allora si irrigidiscono come manichini.
E Silvio Berlusconi, in questo momento, ha bisogno di tutto tranne che di nervi tesi con gli Usa, essendo Gianfranco Fini l’uomo designato a guidare la nuova destra italiana da parte di molti, influenti pensatoi e gruppi lobbistici Usa: non sono mie speculazioni complottistiche o dietrologiche, leggete cosa scrivono e pensano legittimamente di lui al B’nai B’rith e fate due calcoli, essendo questa organizzazione potentissima a livello di lobbing e molto influente presso i circoli di Rockfeller e soci. Inoltre, in questo momento gli equilibri globali sono molto incerti.
Il dito Usa, infatti, è sul grilletto e di fronte alla canna della pistola c’è in prima istanza l’Europa. Nonostante le rassicurazioni degli scorsi giorni, infatti, la Bce è pesantemente sotto pressione per la guerra valutaria in atto nel pianeta e la sua decisione di mantenere i tassi invariati parla questa lingua: da un lato non sa come gestire i rischi di slamp che comporterà la scelta di ritirare i piani di supporto alle banche, dall’altro si trova a combattere contro un fantasma dal nome “debito sovrano”. E gli Usa, questo lo sanno, avendo nelle loro mani due armi segrete: le società di rating, molto arzille ultimamente, e i fondi speculativi, pronti a far scattare la clausola di default sui cds di Anglo Irish Bank, con le conseguenze che questo comporterebbe.
Questo perché gli Usa stanno per conoscere un periodo davvero difficile: da un lato Goldman Sachs parla chiaramente di un dollaro destinato a indebolirsi ancora, con la prospettiva di 1,50 con l’euro entro la fine dell’anno e di 1,79 contro la sterlina entro sei mesi e di 1,85 al massimo entro un anno. Quindi, un potenziale turbo all’export ma dall’altro lato, sempre la ex banca d’affari newyorchese mette in guardia riguardo le prospettive dell’economia a stelle strisce, definite “decisamente cattive” nei prossimi sei-nove mesi anche a causa delle scelte non certo brillanti della Fed.
Insomma, gli Stati Uniti stanno camminando su un filo da equilibrista e state certi che prima di cadere cercheranno di garantirsi un’ampia porzione di materasso sottostante, a discapito di altri che si romperanno l’osso del collo. Ecco un esempio per capire come stanno le cose dall’altro capo dell’Atlantico. Harrisburg, la semisconosciuta capitale della Pennsylvania, lo scorso mese è sfuggita a un vero e proprio disastro finanziario, prendendo soldi dallo stato per pagare i detentori delle sue obbligazioni, questo nonostante l’entità statale avesse reso noto chiaramente che quel denaro serviva per il fondo pensioni dei lavoratori statali. Venerdì scorso, Harrisburg ha bussato di nuovo alle porte dello stato, dicendo chiaramente che senza fondi dal “distressed cities program” non avrebbe potuto pagare gli stipendi.
Il problema è che negli Usa sono sempre di più le città e i governi locali che fanno affidamento a queste scappatoie per evitare le corti federali per bancarotta. Sono 20 in Pennsylvania, 37 in Michigan, 7 nel New Jersey, una a testa in Illinois, Rhode Island e nella pressoché fallita California. Insomma, negli Usa un tempo potenza egemone mondiale, città e governi locali vivono grazie ai piani di salvataggio statali: ovvero, campano di sussidi.
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Il problema è che quel tipo di programma dovrebbe servire a fornire linee di credito per ristrutturare le proprie finanze e tornare a camminare con le proprie gambe, non a mantenere chi non riesce a farcela da solo: capite da soli che il numero di città che busseranno alla porta continuerà a salire e i soldi finiranno molto prima del previsto. Le entità federali Usa, quindi, si trasformeranno in tante, piccole Fannie Mae e Freddie Mac, e sappiamo come queste due siano finite e come abbiano ridotto le casse dello Stato. L’unico precedente di default federale negli Usa risale ai tempi della Grande Depressione, quando l’Arkansas fallì a causa dell’incapacità di ripagare obbligazioni generali: purtroppo, c’è il forte rischio che le lancette dei precedenti storici verranno a breve portate avanti di qualche decina d’anni.
Insomma, capite facilmente da soli che gli Stati Uniti hanno più di una ragione per avere i nervi tesi. Tanto più che anche l’opzione bellica, intesa come ripartenza dell’economia e dell’industria attraverso una guerra o un rafforzamento del comparto difesa in ossequio al nuovo allarme terroristico, vede gli Usa scontrarsi contro una sgradevole realtà, anche in questo casa targata Cina: il neodymium, un componente metallico necessario per il direzionamento magnetico delle bombe attualmente sganciate dagli aerei Usa in Afghanistan.
Fu la grande intuizione di Deng Xiaoping, ovvero puntare tutto come priorità industriale-strategica sul neodymium e su altre sedici componenti denominate “rare earths”, la chiave dell’evoluzione dell’industria bellica di cui ora la Cina è monopolista. E, guarda caso, di cui ora ha ridotto fino alla fine dell’anno l’export del 72%: in parole povere, il Pentagono ha perso il controllo delle sue stesse bombe. E questo non sapete come fa innervosire i vertici militari Usa! Per Peter Leitner, un adviser strategico del Dipartimento della Difesa dal 1986 al 2007, «il Pentagono è stato estremamente negligente al riguardo, ci sono stati infatti decine di segnali d’allarme riguardo il fatto che la Cina avrebbe usato la leva di questi materiali come arma».
Già, armi contro gli Usa e componenti metalliche utilizzate per schermi a cristalli liquidi e computer portatili contro il Giappone, avendo Pechino di fatto bandito l’export di questi materiali verso Tokyo lo scorso 28 settembre. Già lo scorso aprile il braccio investigativo del Congresso Usa, il Government Accountability Office, aveva avvertito riguardo la vulnerabilità del settore militare a causa della mancanza di offerta interna di “rare earths”. Caso strano, proprio tra pochi giorni l’House of Representatives Armed Service Committee terrà un’audizione ad alto livello sul tema, mentre il Pentagono pubblicherà un report riguardo le possibilità sul piatto per assicurarsi questi materiali in grande quantità (guarda caso, l’Afghanistan ne è strapieno, solo che estrarli non è così semplice in un contesto di guerra: certo, un bell’accordo con i Talebani – di cui si parla con sempre maggiore insistenza – faciliterebbe tutto…).
Al momento ci sono due piani di produzione di “rare earths”, entrambi programmati per la fine del 2012, uno gestito dalla Molycorp Inc. in California e una dalla Lynas Corp. in Australia, ma gli esperti parlano di un arco temporale necessario di 15 anni affinché gli Usa possano ricostruire una catena di riserve e supply di questi materiali, necessari oltre che per il comparto bellico anche per le auto ibride e le turbine dell’eolico, ragione per cui la domanda potrebbe superare l’offerta entro il 2014 nonostante l’apertura di nuove miniere.
Altro che investimenti, dumping industriale, export sleale, yuan sottovalutato e diritti umani come optional, è questa l’arma segreta della Cina nello scontro globale e quindi la priorità numero uno degli Stati Uniti. I quali lo sanno e faranno di tutto per porre fine al monopolio del Dragone: anche utilizzando la vecchia “legge del beduino”, ovvero l’amico del mio nemico è mio nemico. E colpirlo è quindi legittimo in una logica di scontro. Tutti avvertiti. Governo e Confindustria in testa.
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P.S. Nel tardo pomeriggio di ieri è giunta in ambienti finanziari londinesi una notizia molto interessante, proprio dagli Usa: immediatamente è stata definita “October surprise”. In cosa consta? Semplice, un progetto di legge passato lo scorso aprile alla House of Representatives statunitense, la scorsa settimana è passato anche al Senato senza dibattito pubblico: un qualcosa di molto strano. Ma cosa tratta quel progetto di legge? Del diritto di riscatto da parte delle banche di ipoteche, in questo caso immobiliari: se Obama firmerà tramutando in legge il disegno, per i proprietari di casa sarà molto difficile evitare di vedere la propria casa messa in vendita in quello che sta divenendo un vero e proprio – nonché floridissimo – mercato parallelo del real estate.
Stando a un funzionario della Casa Bianca, il presidente avrebbe dubbi riguardo al progetto di legge, ma le pressioni sono non da poco. Nei fatti, la nuova legge toglierebbe ai proprietari di casa il diritto di fare appello legalmente contro il diritto di riscatto: e, caso strano, questo succederebbe proprio mentre la crisi delle cosiddette “foreclosures” sta toccando livelli di guardia. Tanto più che un’entità di finanziamento non bancaria come la Mortgage Electronic Registration Systems ha già cominciato la propria politica di riscatto di immobili, esercitando un’autorità ufficialmente negata dai giudici Usa, quasi fosse certa della firma da parte del Presidente: la speaker della House, Nancy Pelosi, ha non a caso chiesto l’apertura di un’inchiesta per truffa, definendo questo nuovo mercato «un business davvero di grandi dimensioni».
La segretaria di Stato dell’Ohio, Jennifer Brunner, ha dichiarato chiaramente che il passaggio in aula al Senato del progetto di legge «ha avuto un timing molto sospetto», di fatto denunciando un’operazione di lobbying dietro le quinte da parte di soggetti erogatori di mutui, banche e finanziarie. Gli Usa, i poteri forti, si stanno stancando delle attese della Fed e dei dubbi immobilisti di Barack Obama: il mercato deve ripartire, in un modo o nell’altro. Che siano i cittadini a pagare, un’altra volta, è solo un dettaglio. L’America sta partendo alla riscossa e non farà, come al solito, prigionieri. Si salvi chi può.