Tra i dati del rapporto “World’s Women”, curato dal Department of Economics and Social Affairs dell’Onu e pubblicato all’inizio di novembre, spiccano le cifre sull’occupazione femminile: quelle del divario occupazionale tra donne e uomini (quasi trenta punti percentuali, in diminuzione solo grazie all’uscita dal mercato del lavoro, dovuta alla crisi, di molti lavoratori maschi), o quelle del diverso contributo al lavoro domestico dei due sessi (nettamente prevalente per le donne rispetto agli uomini: quasi tre ore giornaliere, nel migliore dei casi). Ma oltre a questi dati – riecheggiati di recente da ricerche più mirate, riguardanti il nostro paese, come quelle Istat -, il rapporto presenta almeno un paio di evidenze sulle quali è interessante soffermarsi.
La prima riguarda la crescente adozione di formule lavorative a tempo parziale: che non riguarda soltanto le donne – sebbene queste restino le più interessate -, ma anche gli uomini. Un elemento importante per superare progressivamente la tradizionale interpretazione di tali formule come riservate alle lavoratrici e destinate a rinforzare, come lo stesso rapporto Onu ripete, il modello del male breadwinner: com’è accaduto nelle nazioni nordiche, che pur avendo vissuto un decremento delle lavoratrici a tempo parziale tra il 1990 e il 2007 (-8% per la Norvegia, -5% per la Svezia), hanno però assistito all’aumento della quota di part-timers tra i lavoratori uomini (+4% per entrambe).
In generale, tra le nazioni che hanno visto l’affermazione del modello di lavoro a tempo parziale, spiccano quelle europee dell’Europa nord-occidentale: il caso di studio probabilmente più eclatante è quello dell’ Olanda, nazione che contava nel 2007 ben il 60% delle lavoratrici impegnate in lavori part-time (il doppio dell’Italia); ma degna di nota è anche la politica della Gran Bretagna, che riconosce ai genitori ambosessi di bambini fino a sei anni il diritto a forme di lavoro flessibile, compresa la riduzione dell’orario giornaliero (e ad avvalersene nel 2007 erano il 40% delle lavoratrici).
La seconda evidenza da sottolineare è quella relativa al settore di impiego delle donne: la presenza femminile si conferma prevalentemente concentrata nei servizi (i tre quarti nelle regioni più sviluppate, ma in costante crescita anche nelle altre). Sotto questa dicitura si trovano tuttavia accomunate professioni svariate, non necessariamente intellettuali o aliene dalla dimensione manuale: un impiego in un’azienda di consulenza e uno come operatrice di servizi di cura alla persona o alla casa sono classificati alla stessa maniera.
Una simile riflessione diventa tanto più necessaria se si confrontano i numeri del rapporto sul digital divide di genere: vale a dire, il divario tra uomini e donne nell’accesso e nell’uso delle nuove tecnologie, prima tra tutte Internet. Secondo il rapporto Onu, la disparità è tuttora ampia e tangibile non solo nei paesi in cui la Rete è meno diffusa (tra i quali l’Italia), ma anche in quelli con la maggiore penetrazione (come ad esempio in Germania, Gran Bretagna, Lussemburgo, Belgio, Austria, Svizzera).
Se si associa questo dato a quelli dell’Ocse sulla scarsa presenza femminile tra le professioni dell’information&communication technology (non più del 20%), il quadro che emerge è quello di una lontananza ancora sostanziale delle donne dal veicolo di conoscenza e di occupazione rappresentato dalle tecnologie. Una lontananza che pesa, ad esempio, sull’effettiva natura dell’impiego femminile nel settore dei servizi: la cui crescita può significare un’effettiva emancipazione delle lavoratrici dalle attività meno qualificate e più faticose solo se si accompagna a una parallela crescita nella diffusione di Internet e degli altri strumenti di comunicazione in rete.
Maggiore accesso a questi strumenti non significa solo accesso a professioni di concetto, ma anche migliore conciliazione tra vita e lavoro, tra impegni di cura e impegni professionali: da Internet e dai suoi derivati passa la possibilità di gestire meglio le attività, svincolandole dalla presenza in ufficio e dai modelli occupazionali a tempo pieno (dei quali le cifre citate testimoniano già la crisi).
L’abbandono irreversibile di questi modelli è l’evoluzione che potrebbe far parlare di un passaggio da competenze “hard” a competenze “soft” – come ha fatto di recente, ad esempio, la sociologa e ricercatrice Anna Maria Ponzellini -, o di “femminilizzazione” del lavoro – come ha fatto di recente il professor De Masi -; e che ci si attende di poter vedere confermata, prima o poi, in rapporti come quello Onu.