Sono le due di notte e la luna rischiara il risveglio del signor Head, un sessantenne che crede di sapere tutto della vita e di poterla governare con la propria forza di volontà. L’unico punto buio della squallida stanza in cui vive è il pagliericcio del nipote Nelson, che sua figlia, scappata ad Atlanta, aveva messo al mondo, per poi tornare poco dopo e morire. Egli aveva tenuto con sé il piccolo, ma nella sua durezza non aveva mai accettato lo scandalo della sua nascita. Voleva a tutti i costi piegarne la ribellione. Per questo, ora che Nelson aveva dieci anni, aveva progettato il viaggio ad Atlanta.
Il racconto di Flannery O’Connor Il negro artificiale prosegue narrando il viaggio in treno, l’arrivo nella grande città, l’impatto con il quartiere negro, l’intrico delle vie in cui il signor Head si sperde e non ritrova la via del ritorno alla stazione. L’inadeguatezza del vecchio a orientarsi in una città mutata, il suo risentimento verso la vita, che si trasforma in rabbia per le imprudenze del nipote, la dichiarazione di non conoscerlo quando si trova in difficoltà sembrano condurre verso un epilogo drammatico: una tensione sempre più cupa nella relazione tra i due nel labirinto di una città ostile.
Ma all’improvviso accade qualcosa: si imbattono in una statua di gesso di un negro e, fissandolo, si trovano entrambi di fronte al monumento della vittoria di un altro che ricompone la loro comune sconfitta. Le ultime resistenze cedono e si dissolvono nella pietà. La luna, balzata fuori da una nube, inonda di luce la povera campagna in cui tornano e la ritrovata pace della loro misera casa è protetta dalle sagome degli alberi più scure del cielo, da cui pendono grandi nuvole bianche.
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Il signor Head rimase perfettamente immobile, e sentì la mano della pietà toccarlo di nuovo, ma questa volta capì che non c’erano parole, al mondo, per darle un nome. Capì che nasceva dalla sofferenza estrema che non è negata a nessun uomo e che, per vie misteriose, è data ai bambini. Capì che era l’unica cosa che l’uomo potesse portare nella morte per offrirla al suo Creatore e, improvvisamente, si sentì bruciare di vergogna perché aveva così poco da portare con sé.
Rimase costernato, a giudicarsi con la precisione infinita di Dio, mentre la pietà avvolgeva il suo orgoglio come una fiamma, e lo consumava. Non si era mai considerato un grande peccatore, prima d’allora, ma in quel momento capì che la sua depravazione gli era stata nascosta per risparmiargli lo sconforto supremo. Sentì che era perdonato di tutti i suoi peccati dal principio del tempo, quando aveva concepito nel suo cuore il peccato di Adamo, fino al presente, quando aveva rinnegato il povero Nelson. Seppe che non esisteva peccato troppo mostruoso che non potesse rivendicare come suo e, poiché Dio ama in misura di quanto perdona, si sentì pronto, in quell’istante, a entrare in paradiso.
Nelson l’osservò con un misto di spossatezza e di sospetto, ma mentre il treno scivolava via, scomparendo nel boschi come un serpente spaventato, perfino lui s’illuminò in viso e brontolò: “Sono contento di essere andato in città, per una volta, però non ci torno più (brano tratto da Il Negro Artificiale, di Flannery O’Connor).