Un recente articolo comparso su queste pagine sintetizzava i principali aspetti del rapporto tra William Shakespeare e settima arte, chiudendo su quello che è da prendersi come un dato di fatto: il Bardo rappresenta senza alcun dubbio il più prolifico autore di soggetti per il cinema di sempre. Anche se si può definire praticamente ininterrotto il riferimento ai caratteri per così dire mitici del ricchissimo corpus shakespeariano da parte di produttori, sceneggiatori e registi di tutti i continenti, è pur vero che lo specifico interesse per i titoli della sua opera ha vissuto delle stagioni ben precise.
Ad esempio, una delle ultime – quella che forse ha goduto del maggiore impatto sulle platee mondiali, se si considera il suo punto d’arrivo – ebbe inizio proprio nel Regno Unito nell’autunno 1989, quando l’allora wonder boy delle scene teatrali locali, il “nuovo Laurence Olivier”, il 28enne Kenneth Branagh si lanciò anima e corpo nell’ambiziosa operazione di riportare all’attenzione del decisamente più vasto pubblico del grande schermo secondo un sentire più vicino allo spirito del tempo le opere del drammaturgo, dirigendo e interpretando – al suo esordio assoluto in campo cinematografico – Enrico V (Henry V), ruolo da lui già interpretato sulle tavole del palcoscenico con la prestigiosa Royal Shakespeare Company che gli aveva dato grande popolarità in patria e pellicola tratta dall’omonimo dramma storico con cui si guadagnò le candidature ai premi Oscar per i migliori regia e attore protagonista.
Dieci anni più tardi, nella notte di domenica 21 marzo 1999, Shakespeare in Love (1998, John Madden) avrebbe capitalizzato – sulla base delle tredici candidature ricevute dai membri dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences – la bellezza di sette statuette, tra le quali quelle per i migliori film, attrice protagonista, attrice non protagonista e sceneggiatura originale. Come molti ricorderanno, il film narra con mano decisamente libera l’intensa passione amorosa che nella Londra del 1593 lega un giovane William Shakespeare in crisi d’ispirazione all’aspirante attrice (sotto maschili spoglie, of course) Lady Viola De Lesseps, intrecciandola alla sofferta genesi (e al finale trionfo) della sua tragedia Romeo e Giulietta.
Questo “Rinascimento shakespeariano” cinematografico, oltre ovviamente ad altre pellicole di argomento firmate e/o interpretate dall’intrepido Branagh – Molto rumore per nulla (1993), Nel bel mezzo di un gelido inverno (1995), Othello (1995, Oliver Parker), Riccardo III – Un uomo, un re (1996, Al Pacino) e il suo “leaniano” Hamlet (1996) – si è via via nutrito del fervore e dell’immaginazione di altri autori sia di qua che di là dell’Atlantico, alcuni dei quali hanno dato vita a riletture originali e invero ancora più al passo coi propri tempi dell’opera del Bardo.
Giusto per restare alla già citata «most excellent and lamentable tragedy» dei due sfortunatissimi amanti di Verona (che, dopo quella di Amleto, vanta il maggior numero di rappresentazioni nei teatri di tutto il mondo) e a vent’anni dalla sua uscita nelle sale statunitensi (la premiere si tenne infatti a Los Angeles il 27 ottobre 1996), merita una menzione il coraggioso, visionario, appassionato (o eccessivo?), in una parola, funky (per dirla con il suo regista) Romeo + Giulietta di William Shakespeare (William Shakespeare’s Romeo + Juliet) co-sceneggiato e diretto da Baz Luhrmann (1962), un australiano con alle spalle una carriera di messe in scena di opere teatrali e di allestimenti di spettacoli musicali nel proprio Paese.
Una rilettura in chiave selvaggiamente postmoderna (o meglio pulp, vista l’epoca e l’evidente influenza del primissimo Tarantino) in cui però tutti gli attori si esprimono in pentametri giambici senza alcun timore per il proprio accento yankee («In Shakespeare la lingua è tutto: abbiamo voluto essere rispettosi, senza essere reverenziali»). Un film che rappresentò il primo, vero lancio nel firmamento internazionale – giusto un anno prima della consacrazione definitiva arrivata con Titanic (1997) – della stella dell’allora 21enne Leonardo DiCaprio, premiato a Berlino con l’Orso d’argento per il migliore attore, quindi vent’anni prima della sua sola (a oggi) incoronazione agli Oscar come migliore attore protagonista (su quattro candidature per il ruolo), conquistata quest’anno per Revenant – Redivivo.
Come ha avuto modo di chiarire lo stesso Luhrmann due anni dopo l’uscita della pellicola, a proposito della sua produzione, «[i]n una città di 400.000 abitanti come Londra, [Shakespeare] doveva attirare ogni giorno a teatro un pubblico pagante di 4.000 persone per lo più urlanti e ubriache. Quindi Shakespeare doveva innanzitutto narrare la sua storia in modo così aggressivo, sensuale, chiassoso ed esuberante da farli tacere, e allo stesso tempo toccare e comunicare qualcosa a persone di ogni tipo, di qualsiasi estrazione sociale. E, sapete, volevo davvero imparare da questo tizio vissuto 400 anni fa. E istintivamente sentivo che uno Shakespeare estroso [funky, ndr] avrebbe funzionato. […] Beh, vedete, volevamo fare una specie di interpretazione elisabettiana di Shakespeare. Sapete, uno dei grandi aspetti di quegli spettacoli è che usavano ogni espediente possibile, dalla commedia più scurrile, qualcosa come Tutti pazzi per Mary, alla tragedia più alta, à la Titanic, e il tutto in un unico spettacolo. Forse Shakespeare avrebbe scritto Tutti pazzi per Mary ambientandolo sul Titanic. Quel genere di cose… [risate dal pubblico]».
Tutto molto chiaro, no? Beh, mettiamola così: fortunatamente per tutto il suo pubblico (anche per quello arrivato molto più tardi), il Bardo si è spinto pure più in là…