Caro direttore,
Sembra uno di quei film che siamo abituati a vedere in televisione: il sequestratore, gli ostaggi, il negoziatore, la polizia che circonda l’edificio. Solo che questa volta non siamo in America e il tutto ha un sapore molto italiano. Il sequestratore non è un criminale, né uno squilibrato e neppure uno che ha subito discriminazioni e si vuole vendicare. O meglio, se è vero che il sequestratore di Romano di Lombardia è un ex imprenditore in gravi condizioni economiche e familiari, siamo forse in quest’ultima possibilità. Per fortuna, tutti gli ostaggi sono stati liberati e il sequestratore si è arreso.
L’uomo non ha chiesto il rilascio di compagni di lotta, un elicottero per fuggire, e neppure soldi, come nei citati film. Sembra che si sia limitato a chiedere “un po’ di visibilità per la sua situazione economica”, a quanto ha dichiarato il sindaco della cittadina lombarda. E anche i colpi di fucile che si sono sentiti e che avevano destato molta preoccupazione, sembra siano stati sparati dal sequestratore contro il soffitto, tanto per mettere un po’ di paura, o forse per darsi coraggio. Questa storia potrà sembrare cinematografica, ma rimane una realtà drammatica, che per fortuna non si è trasformata in tragedia
Rimanendo ancora un attimo nella filmografia, il cinema italiano si era finora occupato del rapporto cittadino-fisco piuttosto come commedia, una specie di eterno gioco a guardie e ladri, in cui la “furbizia” del contribuente era spesso guardata con la stessa simpatia riservata alla tenacia dell’esattore. Anche al di fuori delle sale cinematografiche, questo rapporto aveva raramente raggiunto aspetti drammatici, salvo casi eccezionali.
Perché ora la questione fiscale assume colori così violenti? La pressione fiscale eccessiva sembrerebbe più una causa scatenante che il motivo ultimo, e una concausa la applicazione spesso troppo burocratica e ottusa di regole già in sé poco razionali e ragionate. Non si direbbe neppure venuta a mancare quella radicata via d’uscita rappresentata dall’evasione fiscale, malgrado le grida dell’Agenzia dell’Entrate. Perché allora? E perché prendere di mira l’Agenzia delle Entrate e non, per esempio, una di quelle banche spesso accusate, più a ragione che a torto, di strozzare gli imprenditori, specialmente se piccoli?
La mia impressione è che, grazie anche ai suoi atteggiamenti e comportamenti, l’Agenzia delle Entrate sia per molti diventata il simbolo più visibile di uno Stato che, da distante che era, sta diventando sempre più nemico. Il fisco, l’imposizione, sono sempre stati l’espressione culmine di uno Stato oppressivo, dai tempi mitici di Robin Hood alla ottocentesca tassa sul macinato, ormai entrata nel parlare comune. Uno sciopero fiscale, passato alla storia come “sciopero del tabacco”, fa perfino da sfondo alle Cinque Giornate milanesi contro il governo asburgico.
Credo che non si sia ancora arrivati a questi estremi, ma è giunta l’ora di smettere di scherzare con il fuoco. Tanto più che non sono solo gli imprenditori i protagonisti di queste amare storie: loro fanno particolarmente notizia perché a loro non si è abituati. Finora, erano i disoccupati che compivano questi gesti disperati; il punto è che continuano a commetterli e le fasce sociali coinvolte si allargano. La storia non ci aiuta molto, ricca come è di sceriffi di Nottingham e di generali alla Bava Beccaris, quindi meglio rifugiarsi nella filmografia e in quel personaggio chiave che è, in quei film, il negoziatore.
Purtroppo, a meno di essere molto ottimisti, grandi negoziatori in giro non se ne vedono e, se ci fossero, a nome di chi tratterebbero? Di una classe politica capace solo di parlarsi addosso e curare i propri interessi, o di un governo che come negoziatore rispolvera, udite, udite, il “dottor sottile”?