L’assoluzione di Radovan Karadzic è una cosa seria. Seria. Non ho scritto che l’assoluzione è stata bella o giusta, ma importante, questo sì. Il processo era stato intentato contro il presidente sconfitto della Repubblica Serba di Bosnia per genocidio. Un genocidio in generale proprio per il fatto in sé della guerra essendone lui il comandante supremo. Il Tribunale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia ha deciso che per questo reato non ci sono prove. Per Karadzic rimangono in piedi altre accuse, ma questa volta in riferimento a fatti precisi e determinati, come il genocidio a Srebrenica e altri nove capi d’accusa per crimini contro l’umanità nella guerra di Bosnia del ’92 e ’95.
Dico che è una cosa seria, questa assoluzione, perché il Tribunale ha dimostrato di non essere il luogo dove si lavano le colpe dei vincitori e le si rovescia addosso agli sconfitti, ma un’entità di giustizia dove si cerca di distinguere responsabilità storica e politica da quella penale. La guerra è un crimine in sé. Ma la sua esplosione nel caso specifico non può essere attribuita soltanto ai serbi di Bosnia. I musulmani, maggiori di numero, avevano avuto l’avallo ad una dichiarazione unilaterale d’indipendenza con il benestare degli Usa e delle potenze islamiche, con l’Europa divisa come al solito. Karadzic, giovane presidente, era convinto di battersi per una causa irredentista e persino religiosa. Dopo di che la guerra è stata il solito orrore, nel quale di certo i serbo-bosniaci hanno versato crudelmente molto sangue, ma altrettanto certamente si sono imbattuti in combattenti non meno efferati. Si esercitarono in quel conflitto anche i miliziani della futura Al Qaeda, che mozzavano le teste.
Oggi la sconfitta dei Serbi si vede a occhio nudo in Bosnia. Il regime che si è instaurato non è democratico pluralista, ma islamico. C’è libertà di culto. Ma la vita pubblica, le leggi, l’educazione sono a forma coranica. Non c’è una vera pace, perché non c’è giustizia. Detto questo, guai a dimenticare gli eccidi. Guai a non valutare responsabilità di ordini barbari.
Sono stato di recente a Srebrenica come osservatore del Consiglio d’Europa per le elezioni di Bosnia-Erzegovina. Il cimitero è una sequenza tremenda e geometrica. Ci sono migliaia di tombe islamiche e una piccola croce. Tra le migliaia di musulmani uccisi a sangue freddo (8mila) finì infatti nel mucchio degli assassinati anche un cattolico croato. Ho visitato l’hangar dove se ne stavano, senza far niente, i militari olandesi dell’Onu.
Tanti pensieri percorsero allora la mia mente. Pochi mesi prima dell’eccidio, avvenuto nel luglio del 1995, mi ero incontrato con quelli che saranno poi accusati di questa immane strage. E cioè il generale Ratko Mladic e Radovan Karadzic. Non vidi in loro nessun lampo di follia o di volontà criminale. Ragionavano di diritti e doveri, di amore al proprio popolo. C’era la tregua allora, e fui fatto viaggiare bendato per chilometri nella neve, onde non scoprire dove mi sarei recato. Karadzic era famoso, specie per la sua folle capigliatura. Mi disse che la sua parrucchiera era cattolica, poi si fece serio e disse che dopo la fine della guerra ci sarebbero stati molti suicidi, perché tutti avrebbero guardato in faccia l’orrore a cui avevano assistito, ma specialmente i vecchi non l’avrebbero sopportato. Esattamente ciò che si è verificato.
Accolsi con scetticismo la proposta di processare i capi sconfitti. Mi pareva il solito rito. Colpevoli sono sempre quelli che la storia sancisce per tali, poi passano i giudici e si adeguano. Stavolta, almeno sulle responsabilità in quanto tali dell’intera guerra, non si è caricato su Karadzic questo peso mostruoso di 100mila morti e di due milioni di sfollati. Bisogna esaminare ordini precisi, raccogliere e rovesciare sul tavolo prove. Questo è giusto. Meno giusto che non siano chiamati a rispondere di quei morti i potenti colpevoli di aver lasciato uccidere gli inermi, in attesa di capire come spartirsi i Balcani. Giovanni Paolo II venendo a Sarajevo nel 1997 propose “il perdono come proposta politica” come sola via d’uscita dalla spirale dell’odio. Non vuol dire lasciare impuniti i delitti, ma sapere che, se non si rinuncia alla legge biblica dell’occhio per occhio dente per dente, alla fine non resteranno né occhi né denti.