Tanto tuonò che piovve. La Federal Reserve, con decisione unanime dei membri del comitato monetario, ha alzato i tassi di interesse americani per la prima volta dal 2006, una mossa di un quarto di punto che ha portato il costo del denaro in una fascia compresa tra lo 0,25%-0,50% dallo 0-0,25% precedente. La Fed “considera che ci siano stati notevoli miglioramenti nelle condizioni del mercato del lavoro quest’anno e ha ragionevole fiducia che l’inflazione aumenti, nel medio termine, verso il suo obiettivo del 2%”. Di più, il rialzo dei tassi è legittimato “dall’outlook economico e dal riconoscimento del tempo necessario agli interventi per influenzare i futuri esiti economici. Nell’insieme, tenendo conto degli sviluppi interni e internazionali, i rischi appaiono equilibrati sia per l’outlook dell’attività economica che per il mercato del lavoro”. Per finire, la Fed si aspetta che “le condizioni economiche evolvano in modo da garantire soltanto graduali incrementi dei tassi sui Fed funds, i quali è probabile che rimangano per un certo tempo sotto i livelli che dovrebbero prevalere nel lungo periodo”. La previsione media è di quattro rialzi di un quarto di punto l’anno prossimo, che portino a fine 2016 i tassi all’1,375%.
Fin qui la cronaca, la quale immagino vi fosse già nota. I mercati ieri hanno festeggiato con rialzi molto netti e il mondo è come se avesse tirato un sospiro di sollievo, quasi questa scelta fosse davvero uno spartiacque. Non lo è, invece. Anzi, non lo è ancora stata. Cominciamo a vedere il perché, partendo proprio dai futuri rialzi e dal ritmo graduale della loro calendarizzazione, quello che potremmo definire il “lato oscuro”, visto che siamo in pieno delirio da Guerre stellari. Quello compiuto mercoledì, infatti, è stato sì un rialzo da colomba, ma non quanto si attendeva il mercato, il quale prevede solo due aumenti dei tassi nel 2016, mentre i dati continuano a mostrare che la Fed aumenterà i tassi di 100 punti base il prossimo anno, un ritmo più lento del passato ma ben sopra le attese del mercato. In totale, la Fed alzerà i tassi 3 o 4 volte il prossimo anno e quattro nel 2017, quando raggiungeranno un picco del 3,25%. Quindi, per vedere davvero se lo schema Ponzi globale reggerà al rafforzamento del dollaro e al drenaggio di liquidità dal sistema ci toccherà attendere primavera, quando la Fed potrebbe operare un paio di rialzi. Ma, appunto, molto dipenderà dal dollaro: tutte le banche d’affari nel 2016 continuano a vedere il biglietto verde in rafforzamento, addirittura del +14% per Goldman Sachs.
Ed ecco la prima criticità, la quale mi fa pensare che quella andata in onda mercoledì sia solo una pantomima, una mossa obbligata per non dover mostrare al mondo che il Re della ripresa economica Usa è nudo e che il Paese viaggia invece spedito verso la prossima recessione. Se la Fed alzerà i tassi quattro volte il prossimo anno rispetto alle due volte scontate dal mercato, infatti, il dollaro si rafforzerà troppo, soprattutto considerando la politica espansiva della Bce e della Banca del Giappone che spingeranno ulteriormente in basso rispettivamente euro e yen. Cosa diranno le corporations Usa? I loro profitti e utili dove andranno a finire, soprattutto sull’export? E per quanto il mercato continuerà a viaggiare sui fantasiosi e gonfiati multipli di utile per azione, prima di scontare il fair value di titoli legati ad aziende con bilanci e performance da mani nei capelli? È presto per valutare gli effetti della mossa della Fed, davvero troppo presto.
Veniamo poi alla questione liquidità. Ricorderete come, da calcoli di alcuni analisti di cui vi ho dato conto la scorsa settimana, per alzare di 25 punti base i tassi la Fed dovrebbe drenare dal mercato liquidità tra i 310 e gli 800 miliardi di dollari. La cifra, però, potrebbe essere più alta, perché dipende dagli aspetti operativi del rialzo che saranno contenuti in un documento separato della Fed di New York. Di fatto, tocca capire quale sia l’ammontare dell’overnight reverse repo facility necessario per spingere in su i tassi a breve. Non sarà ovviamente illimitato, ma sarà comunque molto grande, probabilmente nell’ordine superiore al trilione di dollari. Per mettere la cosa in prospettiva, l’intero Qe2 ha immesso nel sistema liquidità per “soli” 600 miliardi di dollari, spalmandola su vari mesi, mentre con la scelta fatta la Fed potrebbe potenzialmente drenare il 166% di quella liquidità overnight.
Ovviamente non accadrà dalla sera alla mattina, ma sono dinamiche che, se non gestite con enorme attenzione, quando partono poi diventano fiumi in piena difficili da arginare e controllare. C’è poi l’unicum rappresentato da questo rialzo, visto che in passato la Fed aveva operato sui tassi in circostanze molto diverse. Un’escursione senza mappa, è questo il titolo di un’analisi di Bloomberg Business riguardante la decisione di mercoledì della Federal Reserve di alzare i tassi di interesse dopo che per sette anni erano quasi a zero. Stando agli analisti del magazine americano, le condizioni economiche sulla base delle quali la Fed ha deciso di operare non sono minimamente comparabili con quelle delle volte precedenti in cui la Banca centrale Usa alzò i tassi di interesse e ciò rende molto difficile per tutti, a partire dalle istituzioni fino ai businessman, determinare quale possa essere ora il percorso da seguire per una stabile crescita economica americana.
Nel dettaglio, Bloomberg Business ha comparato la situazione attuale con le due precedenti stagioni di rialzo dei tassi: la prima da febbraio 1994 al febbraio del 1995 e la seconda da giugno 2004 fino a giugno 2006, sottolineando le principali differenze. Primo, il timing, visto che la Fed aveva dato in passato meno tempo all’economia, una volta uscita dalla recessione, per operare un aumento dei tassi. Poco più di due anni nella prima fase, poco più di tre anni nella seconda, contro i sei anni e tre mesi dell’attuale periodo. C’è poi il fattore occupazione, visto che l’attuale tasso di disoccupazione Usa è inferiore rispetto ai cicli precedenti, ma gli economisti non vedono più questo fattore come un indicatore efficace, in quanto sono molti gli americani scoraggiati che hanno lasciato il mondo del lavoro e non risultano nelle statistiche ufficiali. Di più, sempre restando in quest’ambito, la percentuale di persone che lavorano o sono in cerca di lavoro è inferiore a quella dei due rialzi precedenti, in ciò suggerendo ancora debolezza del mercato del lavoro.
C’è poi la dinamica salariale, visto che la crescita per gli addetti alla produzione e per le posizioni non quadro o dirigente è stata tiepida rispetto agli altri periodi, come vi ho fatto notare più di una volta. C’è poi l’inflazione, visto che l’indicatore della Fed di inflazione generale è ben al di sotto dell’obiettivo desiderato del 2%, mentre negli altri due casi era superiore. E anche il dato dell’inflazione core, ovvero quella che esclude cibo e carburante, sale sì più della precedente, ma rimane modesto rispetto al passato. Ci sono poi le esportazioni come percentuale del Pil, visto che queste sono diventate sempre più importanti percentualmente nel computo del Prodotto interno lordo degli Stati Uniti, rendendoli più vulnerabili a una recessione globale. C’è poi il quadro mondiale, il quale vede la crescita più lenta rispetto al ciclo del 2004 e più o meno simile nel ciclo del 1995, stando i dati del Fondo monetario internazionale. Infine, la crescita del Pil, visto che l’economia americana sta crescendo più lentamente di quanto abbia fatto nel 2004: nei due periodi precedenti la crescita era stata rispettivamente del 3,4% e del 4,3% contro il +2,7% attuale, in calo ulteriore.
Insomma, territori inesplorati. Anzi, non del tutto. Perché proprio come oggi, nel 1937 la Fed alzò i tassi nel corso di una recessione (e non ditemi che siamo in ripresa perché smetto di ridere il 6 gennaio). Di più, come oggi anche nel periodo 1929-1936 i tassi collassarono a zero e il bilancio della Fed era passato dal 5% al 20% del Pil per contrastare la Grande Depressione. Bene, tra agosto del ’36 e maggio del ’37 la Fed operò una contrazione monetaria in tre passi, tra l’altro raddoppiando i requisiti di riserva da 3 a 6 miliardi, mosse che portarono il tasso a tre mesi dallo 0,1% del dicembre 1936 allo 0,7% dell’aprile 1937. Cosa successe dopo? Un crollo del Dow Jones del 49% e una durissima recessione nel secondo semestre del 1937, dovuta proprio a quel rialzo avventato che fece contrarre immediatamente la fornitura di capitale. E se già dal 1938 il mercato azionario cominciò a riprendersi, ci vollero quasi dieci anni per ritrovare i massimi del 1937.
Per capirci, cari lettori, ci volle una guerra mondiale per rimettere le cose a posto! E senza scomodare Papa Francesco, qualche eco di turbolenza in giro per il mondo, oggi come allora, c’è. Vedremo, per l’ennesima volta vi ripeto che è presto per giudicare, ma i presupposti per un mezzo disastro ci sono tutti, a partire dai mercati emergenti, i quali sconteranno il combinato di dollaro forte (l’indebitamento in biglietti verdi è enorme, soprattutto nel settore corporate) e di continuo collasso dei prezzi delle materie prime: cosa accadrà? Potenzialmente questo mix potrebbe esacerbare le fughe di capitali, obbligando quei Paesi a utilizzare le riserve valutarie estere con il badile, tanto che in ottobre – prima che la Fed alzasse – sono stati scaricati sul mercato 50 miliardi di Treasuries statunitensi, cifra record. Se poi la Cina dovesse aumentare gli sforzi svalutativi, cosa ovvia visto che lo yuan è legato al dollaro da un peg e quindi se sale uno, sale anche l’altro, allora saremmo testimoni della più grande ondata deflazionistica mai vista al mondo. Capace di schiantare i prezzi dell’import Usa e di vanificare le mosse espansive di Bce e Bank of Japan, le quali – di fatto – dovrebbero fornire ai mercati la liquidità che la Fed sta cominciando a drenare.
Insomma, i rischi sono tanti e pesanti. Una prima prova del nove ce l’avremo proprio oggi, quando scadranno qualcosa come 1,1 triliardi di dollari di opzioni sull’indice S&P’s 500. Una cifra record – come se andasse a scadenza circa la metà del nostro debito pubblico – che porta con sé un’insidia in più, oltre a quella dell’ammontare. Più della metà di quelle opzioni (670 miliardi di dollari) sono put, ossia strumenti finanziari che permettono di guadagnare se il mercato scende, scommesse al ribasso, molto usate quando vige il bando dello short selling. E di queste 215 miliardi hanno strike price – cioè, obiettivo – poco sopra i 1900 punti dello S&P’s 500. L’entusiasmo dei mercati di ieri, quindi, potrebbe essere messo alla prova già oggi, visto che se i mercati leggeranno un po’ meglio la mossa della Fed, prezzando maggiormente parte delle criticità di cui vi ho parlato e che molte banche d’affari hanno già sottolineato, i prezzi potrebbero calare fino a toccare gli strike prices delle opzioni, portandosi sotto i 1900 punti dello Standard&Poor’s 500, ovvero un calo di circa il 5% dal livello attuale, il tutto in un mercato illiquido – sia per trend consolidato che per l’approssimarsi del periodo natalizio -, quindi meno in grado di assorbire grandi shock, esattamente come accadde lo scorso agosto con il tonfo delle equities cinesi.
Infine, vi lascio con una riflessione per il fine settimana. Il sistema bancario siede su un cuscinetto di riserve in eccesso di 2,42 triliardi di dollari: chi pagherà l’effetto negativo di questo aumento dei tassi? Le banche più piccole, quelle che forniscono credito a cittadini e aziende Usa, perché se si troveranno ad aver bisogno di prestiti overnight per soddisfare i loro requisiti di riserva, lo potranno fare pagando un prezzo più alto alle grandi banche che siedono su quell’eccesso di cui vi parlavo prima e che hanno beneficiato delle politiche della Fed. Insomma, chi eroga credito a persone e aziende, pagherà un costo maggiore: pensate che non limiterà ulteriormente i prestiti o non caricherà quei costi con spread aggiuntivo, ponendo un freno all’attività produttiva dell’economia reale e ai consumi, i quali pesano per il 70% sul Pil statunitense? Pensateci.