Un grande amore quello di Abelardo ed Eloisa nel cuore del XII secolo, raccontato dagli stessi protagonisti, secondo la tesi oggi prevalente sull’autenticità del loro epistolario. Quando Abelardo conosce Eloisa, una delle donne più intelligenti, colte e belle del Medioevo, è già un affermato maestro di quella scuola di Parigi che da lì a poco avrebbe dato origine all’università. Ha uno smisurato orgoglio intellettuale, esercita un enorme fascino sui suoi studenti e gode di una meritata fama di abile dialettico.
Fulberto, zio e tutore di Eloisa, gli affida l’incarico di istruire la nipote. Incarico galeotto, perché i due diventano ben presto amanti, preferendo al diletto della conoscenza i piaceri della carne. Ben presto scoperti, sono indotti a sposarsi in segreto, in modo da non nuocere al prestigio di Abelardo, il cui ruolo di maestro esige all’epoca il celibato.
Viene celebrato il matrimonio, nasce un figlio al quale è imposto il curioso nome di Astrolabio; ma Fulberto, non contento della tardiva riparazione, si vendica nella maniera più truce: nottetempo fa evirare Abelardo dai suoi sicari. I due sposi vengono separati, proprio quando la loro unione è legittima: lui si rifugia in monastero e fa ritirare lei in un altro.
Da questo momento le loro due strade si allontanano. Abelardo percorre una strada impervia. Già provato, e duramente, nella carne, viene attaccato sul piano della dottrina da san Bernardo, intransigente difensore della teologia monastica e le sue tesi sono condannate anche grazie all’enorme influenza del suo avversario. La sconfitta diviene via alla conversione, confortata dall’amicizia di Pietro il Venerabile, abate di Cluny, che lo accoglie infermo e gli offre il perdono della Chiesa.
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Non così Eloisa: non accetta la monacazione forzata anche se è diventata badessa del Paracleto, monastero benedettino dedicato allo Spirito Santo. Alla penitenza umile di Abelardo si oppone il dramma della rivolta di Eloisa e tale diversità percorre il loro carteggio. Abelardo scrive a un amico la storia delle sue disgrazie, non tacendo i particolari della sua vicenda con Eloisa. Ella se ne risente e rompe il silenzio imposto dalle circostanze.
“Al suo signore, o meglio al padre, al suo sposo, anzi al fratello, la sua serva o meglio la figlia, la sua sposa anzi la sorella; a Abelardo, Eloisa”: intestazione icastica ed esplicita di un conflitto ben lontano dall’essersi composto. Rigore intellettuale e precisione linguistica non mascherano la lotta interiore. Senza falsi pudori, Eloisa rivela quanto la sua condotta in monastero sia lontana dall’essere irreprensibile; il chiostro risveglia in lei il rimpianto delle gioie passate ed ella chiede aiuto sì, ma soprattutto confessa perdutamente a Abelardo la fierezza della sua fedeltà.
Lui risponde, indicandole l’unica via praticabile, quella dell’accettazione. La resistenza di Eloisa non si piega e sotto la freddezza delle espressioni con cui gli si rivolge pulsa un fuoco non sopito, si accende la passione intellettuale e a suo modo etica di una donna che non accetta ciò che ripugna alla sua libertà: essere ridotta alla pia finzione di sposa di Cristo, quando con tutta se stessa continua a essere la sposa di Abelardo.
Egli ricorre allora a un ultimo argomento: ha amato in lei non lei stessa, ma il suo proprio piacere; solo Uno l’ha veramente amata, morendo per lei. Davanti al Crocifisso, Eloisa cede. Abelardo muore. Pietro il Venerabile scrive a Eloisa per informarla e lo fa con grande delicatezza. Le si rivolge con l’onore dovuto alla badessa e con l’affetto per una donna che ora rimane ancora più sola: “Egli ti è custodito per l’eternità, per poterti essere restituito”. Eloisa ottiene di poter accogliere al Paracleto le spoglie di suo marito e di essere sepolta accanto a lui. Per chi crede nella resurrezione della carne, ciò non è uguale a zero.