Anche la Banca d’Italia si iscrive nell’elenco di quanti si accontentano di osservare l’albero ma di ignorare, a bella posta, la foresta. L’Istituto di via Nazionale ha reso noto che solo due lavoratori su dieci sono assunti con un contratto di lavoro a tempo indeterminato e che il dato è in diminuzione perché lo scorso anno erano quasi il doppio. Così, i grandi quotidiani ieri hanno avuto l’opportunità, in apertura, di ritornare sulla mistica del precariato e di intonare lamentazioni funebri sulla fine del lavoro stabile, magari con qualche rimpianto per le correzioni che il Parlamento – a opera dei gruppi della “strana” maggioranza – ha imposto alla parte della legge Fornero dedicata alla cosiddetta flessibilità in entrata. Se questa è la realtà ci sarà pure una spiegazione oppure anche dal «sancta sanctorum» della Repubblica dobbiamo aspettarci la solita denuncia priva di prospettive e di soluzioni proprio perché deficiente sul versante dell’analisi?
Chi scrive ritiene che la flessibilità dei rapporti di lavoro sia un’esigenza di questa fase dell’economia, dell’organizzazione della produzione, delle condizioni della competitività internazionale. La riforma del lavoro non aiuta a uscire da questo handicap strutturale, perché non essendo riuscita a determinare un nuovo equilibrio tra maggiori tutele in entrata e minore rigidità in uscita, ha finito per irrigidire di più il mercato del lavoro. Ma le mie possono essere opinioni discutibili, che la realtà potrebbe smentire. Se fossimo in una condizione normale però!
Come si fa, allora, in una situazione in cui il Paese traballa come il campanile di una chiesa sottoposta alle ondate sussultorie di un terremoto di rilevante intensità, il Pil è di segno negativo per quasi due punti, la produzione industriale è in notevole flessione e quant’altro fa ritenere che il malato Italia difficilmente passerà l’estate, a lamentarsi del fatto che i datori assumono a termine? Strano Paese il nostro, sempre disposto a fare nozze con i fichi secchi.
A me è capitato di partecipare pochi giorni or sono ad una trasmissione televisiva della Rai (era la prima volta: giuro che non ci andrò mai più) con Teodoro Buontempo, paladino sfrenato della lotta alla povertà, che faceva propaganda a una legge di iniziativa popolare sul salario minimo garantito (pari a 1.300 euro mensili) e un giovanotto del Nidil-Cgil secondo il quale sarebbe bastato abolire i cosiddetti rapporti di lavoro precari per risolvere il problema della disoccupazione e della “cattiva” occupazione giovanile.
Tutta la trasmissione verteva su come aumentare le retribuzioni degli italiani che, come annunciato da Bankitalia, sono ferme da un sacco di anni. Ecco allora la domanda: è possibile chiedere alle imprese di assumere a tempo indeterminato in un contesto in cui la regola è l’incertezza? A questa domanda si può rispondere in tanti modi, persino sostenendo che la gravità della crisi non giustifica che siano calpestati i diritti dei lavoratori. Ma questi otto rapporti di lavoro non standard che non rispondono ai canoni del “politicamente corretto” sono accesi sulla base di quanto prevedono le leggi vigenti oppure siamo nell’ambito dell’arbitrio padronale?
A me pare che tra le due circostanze ci sia una notevole differenza, dal momento che anche i rapporti flessibili sono regolati da norme di legge e da una giurisprudenza consolidata, orientata prevalentemente alla tutela del lavoratore. Sinceramente, credo che sarebbe più utile segnalare che, nonostante tutto, il mercato del lavoro presenta ancora una sua dinamica, che le imprese prevedono di assumere e che, sovente, non riescono a trovare i profili professionali che cercano. Poi c’è un altro aspetto da segnalare. Un conto è considerare la tipologia delle assunzioni; un altro osservare quanti di quei rapporti precari e in quanto tempo si stabilizzano. Senza mai dimenticare che in un Paese in default garanzie non ce ne saranno più.