Si comincia a rinforzare il recinto europeo ma nessuno, in realtà, sa se i buoi siano o meno già scappati. Michael Bernier, Commissario del mercato unico, pubblicherà infatti una “consultation paper” che conterrà le linee guida per proteggere i contribuenti da un crisi bancaria: nei fatti, è il primo passo di quella che appare una legge vincolante in fase embrionale.
«Stiamo perseguendo l’idea di una writedown del debito o di una sua conversione per aiutare a stabilizzare le banche in difficoltà e ridurre la necessità di fondi pubblici», hanno fatto trapelare fonti comunitarie. Peccato che gli investitori abbiano letto queste parole come la prima fase di una crociata contro i detentori di bond, scatenando nuova tensione sui mercati del debito Ue l’altro giorno e spingendo il rendimento del decennale greco al record del 12,59%. Sì, avete letto bene.
Tre giorni fa, poi, il Portogallo ha dato vita alla prima asta dell’anno, piazzando sul mercato 500 milioni di euro di debito in obbligazioni semestrali pagando però uno yield del 3,67%, esattamente il doppio di quanto pagato a settembre: capite da soli che pagare quasi il 4% di rendimento su un’obbligazione a sei mesi è qualcosa di folle. «È una dinamica insostenibile», conferma Lena Komileva della Tullett Prebon. I cds sulle obbligazioni irlandesi sono saliti di 16 punti base a quota 620 dopo che la Banca centrale Svizzera ha reso noto che non accetterà più debito irlandese come collaterale alle sue operazioni repo, ovvero di prestito di denaro.
Insomma, siamo al punto più critico dell’intera vicenda del debito europeo e la Germania, a fronte del documento Ue sulla crisi bancaria, dovrà cercare di imporre la sua volontà di taglio sui rendimenti, il cosiddetto burden sharing, se vorrà evitare che i periferici infettino non tanto la sua economia in ripresa quanto la stabilità politica. Per Andrew Roberts, capo analista del credito di RBS, «non è una coindidenza che la Merkel abbia perso la sua maggioranza al Bundesrat due giorni dopo il salvataggio greco. I timori sul debito periferico non sono spariti, anzi proseguiranno fino a quando la Germania non deciderà se diluire il suo stesso rating sul credito per finanziare il sistema oppure dire una volta per tutte che ne ha abbastanza».
Ma, leggendo i giornali di questi giorni, il problema sembra essere soltanto l’inflazione salita al 2,2% nell’eurozona. Una preoccupazione ridicola per Giacomo Vaciago, docente di politica economica all’Università Cattolica di Milano, secondo cui «in Europa chi sopporta questo tasso inflattivo? Chi cresce, perché magari esporta verso Cina e India e quindi sopporta in maniera egregia un’inflazione al 2%, un qualcosa che si concretizza come incremento naturale dei prezzi a fronte della situazione macro. Certo, diventa insopportabile se sei un disoccupato o un cassaintegrato, allora sì può essere allarmante ma, ripeto, non è questione altra se non riguardante la discrepanza di livelli di crescita tra i vari paesi.
Il problema reale dell’Ue è che il cuore dell’unione, l’asse franco-tedesco più quella che un tempo veniva definita “area del marco” va bene, è ripartito mentre i periferici, ovvero l’Irlanda, l’Italia, il Portogallo, la Spagna e la Grecia no, restano lì inchiodati perché hanno troppi debiti, privati e pubblici. E, ricordiamoci sempre, che il debito privato se troppo alto, si tramuta in pubblico attraverso i costi dei salvataggi. L’Irlanda non aveva certo un debito pubblico greco o italiano ma salvando le due principali banche del paese ha visto peggiorare il suo dato, visto che per Dublino si parla di due dati di deficit, prima e dopo il bail-out di Anglo Irish Bank: prima al 16%, poi al 32%. La Spagna vivrà più o meno la stessa situazione con le cajas, le casse di risparmio a controllo statale. Il problema nel problema è che non abbiamo prestato abbastanza attenzione a quanto fatto dalla Merkel nel 2009».
Parole sante, alle quali bisogna unirne altre: ovvero ricordare che dal 2009 per la Germania l’attitudine verso i partner spreconi è cambiata. Perché? Semplice, due anni fa a Berlino è stato introdotto il divieto costituzionale di creazione del debito pubblico dal 2016. E, ci ricorda Vaciago, «quell’atto nel modo di ragionare e agire della Cancelliera tedesca è già cosa fatta, è già un qualcosa di operativo. Questo spiega la logica scelta di Berlino nell’affrontare la crisi del debito periferico: ovvero, d’ora in poi ci saranno soltanto salvataggi con punizione perché gli altri Stati hanno “peccato” creando debito, i bail-out a costo zero sono retaggio del passato. Non a caso i mercati hanno capito questo meccanismo, lo hanno fatto loro e hanno cominciato ad agire sugli spread dei periferici rispetto al bund, la cui forbice ha continuato ad ampliarsi. È l’effetto Merkel e rappresenta un cambiamento strutturale e irreversibile, l’era degli spread a 0 è finita, insieme a quella del “siamo tutti tedeschi” che ha caratterizzato il primo decennio dell’euro. Quel mondo si è rotto, anzi, si è rotto lo specchio nel quale ci vedevamo tutti tedeschi: è finito in mille pezzi e, quindi, attraverso le schegge non si riesce a vedere nulla, tantomeno uno spread dello 0,25 tra bund e titoli italiani».
Ma oltre alla Merkel, anche Basilea 3 rischia di trasportarci in un mondo nuovo. Si parla molto, ad esempio, dei nuovi requisiti di capitale imposti alle banche ma molto meno delle nuove regole sulla liquidità. Nei fatti è come se venisse reintrodotto il vincolo di portafoglio, ovvero il cuscinetto di garanzia in titoli di pronta liquidabilità è di fatto previsto solo con titoli di Stato. Insomma l’attivo dovrà avere una componente significativa di questo tipo. Un po’ un azzardo, salvo il paracadute della Bce attraverso un massiccio programma di acquisto che però, a oggi, non appare nelle corde di Francoforte e questo spiega i continui aumenti dei rendimenti dopo la loro lievitazioni naturale dai tassi zero artificiali.
A questo va unito poi un altro requisito di Basilea 3, ovvero la drastica riduzione della redditività delle banche, le quali dovranno dire addio a ritorni sul capitale del 20% e allinearsi a un 10-12% come pagato dalle public utilities più grandi, autostrade e acquedotti. Prima era tutto in mano e frutto della speculazione, si agiva sulla leva come fossero tutte merchant banks: ora non sarà più così e non rappresenta un cambio di direzione da poco. Soprattutto a fronte di necessità di rifinanziamento complessive nel 2011 per banche e governi di qualcosa come 826 miliardi di euro, non proprio bruscolini. Non so voi ma io vedo come sempre più probabile un bel “no” alla liceità del salvataggio greco da parte della Corte costituzionale tedesca a metà febbraio, il vulnus necessario alla Merkel per dettare nuove regole ai meccanismi europei, gli stessi che i mercati non digeriscono allineandosi alla politica tedesca e utilizzando la forbice degli spread come ricatto.
Da qui a giugno Stati e banche dovranno rifinanziarsi per oltre 450 miliardi di euro, l’asta portoghese dell’altro giorno e i suoi rendimenti record rischiano di diventare la norma: o si spalmano le maturazioni e si tagliano i rendimenti o la Bce si mette a comprare debito italiano e spagnolo in grande stile o la baracca del finanziamento forzato salta. Nell’attesa, si crea nuovo debito pubblico e si dilazionano i processi di consolidamento fiscale e taglio del deficit: l’inflazione che paghiamo noi periferici è poco interna e molto importata, ovvero scontiamo i prezzi in salita dell’energia per una crescita che non è nostra.
Giulio Tremonti, se non è troppo impegnato a seguire le orme di Gianfranco Fini, dovrebbe battere un colpo visto che alcune imprese in Italia cominciano una mini ripresina che però, per essere sostenuta, necessita di ritrovare spinta e fiducia contestualmente alla riduzione del debito. Come ben si sa – e lo sa bene anche Tremonti – le due cose stanno difficilmente insieme necessitano di tempi medio-lunghi (almeno la seconda).
Sicuri che al Tesoro si stia facendo tutto il possibile, a parte le trame di palazzo? Sicuri che non si possono sbloccare i fondi per i progetti già cantierabili? Sicuri che non si possa intervenire sul fronte bancario, visto che con la scusa di Basilea 3 gli istituti sono pronti a restringere ancora il credito alle Pmi, vera ossatura del paese e unica speranza della ripresa? Ha letto il ministro, tra una cena e una riunione segreta, la consueta ricerca di fine anno di Grant Thornton, secondo cui il livello di fiducia delle Pmi in Europa per il 2011 è il più basso in tutto il mondo? L’Abi, dal canto suo, non ha trovato di meglio che dar vita a una crociata per far alzare il tasso di utilizzo di carte di
credito e di debito in Italia, al fine di tesaurizzare il cash: complimenti!
Ieri Giulio Tremonti ha lanciato, di fatto, la sua candidatura a premier con un discorso pessimistico sull’economia, nei fatti il tradimento del suo credo iper-ottimista fino a oggi: «La crisi non è finita. È come vivere in un videogame, compare un mostro, lo combatti, lo vinci, ti rilassi e subito spunta un altro mostro più forte del primo. Insomma: si dice che va tutto bene, ma ne siamo proprio sicuri? Si è utilizzato il denaro pubblico per salvare con le banche anche la speculazione e il risultato è che siamo tornati quasi al punto di partenza». Poi, citando Winston Churchill, ha auspicato che «l’Europa risorga». Insomma, un leader in pectore.
Ma lui cosa fa per dar seguito a questi appunti, che negava fino a tre mesi fa dicendo che tutto andava bene madama la marchesa? Boh? Caro ministro, saper solo chiudere i cordoni della borsa non ci metterà al riparo dagli attacchi nel mercato e, contestualmente, ucciderà quel poco di entusiasmo imprenditoriale e ripresa che possiamo recepire. Ci rifletta.