È stato il giorno della “svolta populista” del Partito democratico. Nonostante che Enrico Letta – ospite del pensoso appuntamento di Repubblica a Mestre – abbia calcato la mano sull’intenzione di “superare il populismo e l’antieuropeismo”, Matteo Renzi cavalca invece i sentimenti largamente diffusi contrari ad amnistia e indulto e si erge a “sentinella del bipolarismo” in una scena politica che in realtà rimane saldamente tripolare (Pdl-Pd-grillini). Lo stesso Letta riconosce che il suo partito, se non vuole essere “asfittico”, deve cominciare a parlare non soltanto “alla testa e al cuore” dei suoi elettori, ma anche alla “pancia”. Esattamente quello che la sinistra ha sempre rimproverato a Silvio Berlusconi e alla Lega Nord.
Letta parlava davanti ai lettori di Repubblica, Renzi alla platea di Bari che salutava l’inizio dell’ennesima campagna elettorale del sindaco di Firenze. La corsa è verso le primarie per la segreteria del Botteghino, ma sembra di essere ritornati a un anno fa, quando il primo cittadino gigliato sfidò Pierluigi Bersani per la candidatura a premier. Forse che nel Pd si annusa aria di campagna elettorale “vera”, di ritorno alle urne?
Il capo del governo assicura ancora una volta che l’esecutivo è solido. Tuttavia Letta ha confermato la svolta impressa dopo la débâcle dei falchi berlusconiani: cioè un’impronta di sinistra più marcata. Dopo il voto di 10 giorni fa, il Pd ha riaperto il fronte dell’Imu (ma nella manovrina ha dovuto fare marcia indietro) e ribadito il sì alla decadenza di Berlusconi, mentre Letta ha tentato di dettare la linea al Pdl sentenziando la fine dell’era del Cavaliere e puntando tutto sulla leadership di Alfano. Senza contare il salvataggio Alitalia, molto poco liberista e assai legato a un’idea statalista di forte presenza pubblica nell’economia.
È come se il premier lanciasse segnali precisi al suo vice: ricordati che hai promesso fedeltà al governo, se vuoi prendere in mano il partito fa’ in fretta altrimenti spaccalo e forma i tuoi gruppi autonomi.
La scudisciata di Letta di ieri sulla Bossi-Fini (“la abolirei se potessi, il reato di clandestinità è sbagliato”) va ancora in questa direzione perché costringe Alfano sulla difensiva. Il premier sente lo sbandamento del Pdl e prova a dettare lui i temi e i tempi del dibattito. E inevitabilmente ciò comporta concessioni proprio alla “pancia” degli elettori. Cosa che del resto fa anche Renzi quando (sia pure rimproverato da Letta) si oppone a indulto e amnistia. Il populismo aborrito quando se ne servono gli avversari diventa ora la nuova bandiera del Pd che non esclude il ritorno al voto in tempi brevi.
Il Pdl è dunque nell’angolo e non si vede come potrà uscirne in tempi rapidi. Alfano ha vinto una battaglia, non la guerra. I “lealisti” gli hanno contrapposto un altro quarantenne, Fitto, che chiede l’azzeramento delle cariche nel partito e un congresso per ripartire da zero. Ma nel Pdl il primo che non vuole il congresso è un personaggio che risponde al nome di Silvio Berlusconi. In questo caos interno, si allungano i tempi perché Alfano possa prendere in mano il partito senza il fiato sul collo di falchi come Verdini o Bondi. Mentre il Pd discute sui temi che interrogano gli italiani (le tasse, i conti pubblici, l’immigrazione), il Pdl riduce tutto a una questione di organigrammi interni, una guerra di palazzo tra lealisti e governisti, una resa dei conti tra fazioni. Un’involuzione ingloriosa che trova puntuale riscontro in un ribasso nei sondaggi pre-elettorali.